L'altro volto della medaglia: la crisi mentale. L'ultima vittima è il marziano del nuoto, il ranista Adam Peaty, rivale del nostro campione del mondo Nicolò Martinenghi. Mercoledì, alla vigilia dei Campionati inglesi, ha annunciato il forfait: «Sono stanco, non sono me stesso e non mi sto godendo lo sport come ho fatto negli ultimi dieci anni - scrive Peaty -. So solo che ho lottato con la mia salute mentale e non ho avuto risposte negli ultimi anni». L'inglese tre volte medaglia d'oro olimpica nonché primatista mondiale dei 100 rana in vasca lunga continuerà ad allenarsi, ma salterà tutta la stagione «all'unico scopo di poter portare la migliore prestazione possibile a Parigi 2024». Cosa si nasconde dietro questo suo malessere? Monica Vallarin, nuotatrice olimpica a Mosca 1980 e psicologa dello sport, spiega: «La crisi tra identità e prestazione porta gli atleti perfezionisti a uno stato di scoraggiamento e a una rabbia autodiretta. Si attaccano sentendosi imperfetti e quindi talvolta inadeguati o comunque non abbastanza. Queste ferite narcisistiche possono provocare difficoltà a reagire. È come un sentimento di inadeguatezza, un abbassamento della sensazione di efficacia in allenamenti e gare, fino ad arrivare a un sentimento di impresentabilità».
Peaty è solo l'ultimo dei casi emersi dopo i Giochi di Tokyo 2020 in una lista in cui fanno parte anche la ginnasta Simone Biles, che in Giappone si era ritirata da alcune finali per un blocco mentale e il nuotatore americano Caeleb Dressel (7 ori olimpici), il quale ai Mondiali di Budapest 2022 ha lasciato all'improvviso la Nazionale dopo aver preso parte ad alcune gare. Molti di questi campioni, si rivolgono a Michael Phelps, il più decorato con 28 medaglie olimpiche di cui 23 d'oro, che ha sofferto la depressione dopo gli 8 ori vinti a Pechino 2008. «Gli sport individuali come il nuoto - conferma Vallarin - sono assai esposti in questo senso perché ci si confronta con una maggiore solitudine, e quindi diventa rilevante poter disporre di una rete che sostiene l'atleta nei confronti del risultato atteso. Agli atleti servono momenti di recupero fisico ma anche psicologico».
Adesso l'ex Kid di Baltimora si batte per la salute mentale e incoraggia le persone ad andare in terapia. Non è più un tabù parlarne ed infatti altri campioni dello sport a stelle e strisce hanno confessato i loro problemi: da Naomi Osaka a Serena Williams a Mikaela Shiffrin. Anche Gigi Buffon, che raccontò: «Mentre andavo al campo, avevo problemi anche a guidare. Le gambe si muovevano da sole. Andai dal dottore e chiesi aiuto». Non sempre tutti riescono a farlo, per esempio il sudafricano Le Clos, colui che ha battuto a Phelps a Londra 2012, che ha affermato: «Ho dato l'impressione di essere felice perché pensavo che parlare di salute mentale mi facesse sembrare debole». Invece, dice Vallarin, bisogna aprirsi, affidarsi agli esperti del settore.
«Nell'immagine ideale - conclude - c'è la credenza da parte degli atleti che in un mondo così pieno di performance il mostrare incertezze, debolezze, vulnerabilità, il sentirsi fragili possa essere giudicato critico e debole o addirittura privo di valore o inadeguato».
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