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Quando Federer detronizzò Pete Sampras a Wimbledon

Il 2 luglio del 2001 il corso della storia muta. Il vecchio Re viene deposto, una nuova monarchia illuminata si affaccia: durerà oltre vent'anni

Roger e Pete si salutano a fine match
Roger e Pete si salutano a fine match

La gente è accalcata sulle colline circostanti, afflitta dall’ammucchiata e da un’umidità inedita per Londra. I fortunelli che sono riusciti ad accaparrarsi un ticket, invece, scolano con rigoroso contegno calici di bianco nel parterre dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Vale a dire, Wimbledon. È il 2 luglio del 2001: l’estate erompe in tutta la sua fragorosa imperiosità e i tizi che popolano il campo centrale sono sinceramente rilassati. Sanno, in fondo, che l’esito di quella contesa è già inciso nella pietra. Da un lato il sette volte campione Pete Sampras, dominatore ruggente degli interi anni Novanta, seppur in coabitazione con Agassi. Dall’altro un poppante svizzero che, prima di questo benedetto torneo, non aveva mai nemmeno varcato il primo turno.

Roger Federer non ha nemmeno vent’anni. Si introduce dentro questo quarto turno sventolando un discutibile codino. Sfodera anche un sorriso malcelato, che deve avere a che fare più con la sferzata emotiva del momento che con la paura. Del resto lui non ha nulla da perdere. Lo segue il greco d’America, ciondolante, avvolto nei classici pantaloncini XL. Per la prima volta dopo un mucchio di anni, il suo incedere nel torneo è stato incerto, vacillante. Ha dovuto penare più del solito per sbarazzarsi di avversari infimi, solitamente trangugiati senza passare dalla masticazione. Risibili scalfiture? Non proprio.

C’è un antefatto che insaporisce la storia. Una di quelle svolte che concorrono a cambiare il corso rettilineo degli eventi. Per la prima volta Mr Eddie Seaward, il mitologico giardiniere del torneo, ha deciso – d’accordo con il board, s’intende – di cambiare il mix di sementi che compongono i campi. Risultato? La pallina rimbalza più alta e regolare, concedendo anche ai comuni mortali che arrancano sull’erba di provare a giocarsela. È tutt’altro che un frivolo dettaglio, anche se una parte della stampa, all’epoca, derubrica la questione al grado di dimenticabile fesseria: “I più forti vinceranno comunque”, la sentenza emessa.

Dunque si gioca. Tra un punto e l’altro Federer è sorretto dal tiepido sostegno di chi, dalle tribune, ama tifare per gli sfavoriti. Sampras possiede, invece, una claque esondante. Non che serva a molto, a dire la verità. Pete prova da subito a imporre la sua legge: del resto un Re non domanda. Pretende. Non si avvede ancora, il nostro sovrano, che la sua corona sta per essere scippata. Che quel ragazzino dallo sguardo benevolo e sicuro è destinato a detronizzarlo, grazie ad un tennis altrettanto regale. E pensare che, si annoterà in seguito, lo svizzero è per forza di cose ancora ruvido nelle movenze e tutt’altro che impeccabile nel tocco.

Avvinto da quella cappa di umidità trasecolante, il match si incanala in un corridoio di scambi che arriva a lambire le quattro ore di gioco. Sui quattro set pari Pete si divora l’occasione per chiuderla, complice una difesa maestosa da parte di Roger. Quella che doveva essere poco più di una passeggiata di salute si è trasformata in un declivio scosceso. Le crepe adesso sono a vista. Il regicidio sta per essere consumato. Succede tutto in fretta. Il servizio di Sampras. La risposta limpida di Federer. Il serve and volley floscio del campione. Il passante tramortente del nuovo astro. Il campo centrale sussulta. È ancora il 2 luglio 2001, ma qualcosa è cambiato per sempre. Il vecchio Re è morto. Inizia una nuova illuminata monarchia.

Durerà, ormai lo sappiamo, più di vent’anni.

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