Controcultura

Il Tarantino da leggere è bello (quasi) come il Tarantino da vedere

Il regista spiazza tutti con il libro "tratto" dal film "C'era una volta a...Hollywood"

Il Tarantino da leggere è bello (quasi) come il Tarantino da vedere

«Ma tu l'hai visto il film?». «No, ho letto il romanzo». Oppure: «Meglio il romanzo o il film?».

Sono i discorsi che sentiamo sempre, in genere senza senso, perché un film è un mezzo artistico e il romanzo un altro (con alcuni rari casi in cui il film è davvero meglio del romanzo, come nel caso di Shining di Stephen King girato da Stanley Kubrick).

Ma difficilmente succede che un grande regista tragga un film da un proprio romanzo e poi pubblichi il romanzo dopo il film, come ha fatto Quentin Tarantino con C'era una volta Hollywood, che uscirà il 1° luglio in contemporanea mondiale e in Italia è edito da La Nave di Teseo (Elisabetta Sgarbi, non solo editore ma anche raffinata cineasta, non poteva lasciarselo scappare).

Quindi, direte, meglio il romanzo o il film? Trattandosi di Quentin Tarantino verrebbe spontaneo rispondere che senza dubbio è meglio il film, ma anche in questo caso no, sono due cose diverse. La trama è più o meno simile: siamo a Los Angeles, nel 1969, c'è Rick Dalton, attore non proprio fallito ma in declino e che ha fatto solo parti da cattivo, la sua controfigura Cliff Booth, l'agente Marvin Schwarzs, e Sharon Tate fino all'eccidio di Cielo Drive (sventato nel film, ma come va a finire il romanzo non ve lo dico).

Il bello è che troverete approfondite riflessioni sul cinema che nel film non potevano trovare spazio, molte delle quali espresse dal personaggio di Cliff Booth, e che possiamo immaginare riflettano i pensieri di Quentin Tarantino, le passioni che hanno influenzato i suoi film, e perfino le idiosincrasie, e pettegolezzi buttati lì, come quando gli italiani negli anni Cinquanta cercano di convincere Steve McQueen a girare uno spaghetti western in Italia, Dino De Laurentiis gli offre una villa, altri produttori mezzo milione di dollari, una Ferrari, «e la certezza quasi matematica di trombare la Lollobrigida».

Critica spietata al cinema hollywoodiano, con una spiegazione sociologica tarantiniana impeccabile: «Dopo la devastazione patita durante la Seconda guerra mondiale, quando i Paesi europei e asiatici ricominciarono lentamente a fare film, spesso sulle rovine lasciate dai bombardamenti (Roma città aperta, Ladri di biciclette), si resero conto di rivolgersi a un pubblico molto più maturo. Invece negli Stati Uniti, un paese dove ai civili era stata risparmiata la cruda realtà del conflitto, il cinema rimase ostinatamente immaturo e rivolto in modo frustrante all'intrattenimento di tutta la famiglia».

Critica dunque proprio alla Hollywood patinata, sempre troppo poco credibile. Neppure attori come Marlon Brando, Paul Newman, Ralph Meeker, John Garfield o Robert Mitchum si salvano dall'apparire sempre «come fanno solo i personaggi dei film, con una parte di artificio che gli impedisce di essere convincenti». Se Paul Newman faceva la parte di un bastardo restava un bastardo affascinante, a differenza di Jean Paul Belmondo, che era «un pezzo di merda» mentre «a Hollywood gli stronzi venivano sempre romanticizzati».

Immensa passione per il cinema europeo, quindi, e anche per quello asiatico (che per chi conosce Tarantino sa che in seguito si innamorerà anche dei film di Bruce Lee), cosa che se ci pensate trovate in tutti i film di Tarantino. Ma senza restarne incantati. Hiroshima mon amour? «Una cacata pazzesca». Michelangelo Antonioni? «Un ciarlatano». Il cinema in sé una forma d'arte sublime pari alla letteratura o la pittura? «In realtà non pensava che il cinema fosse chissà cosa, i registi erano dei tizi che dovevano seguire una tabella di marcia. L'idea che i registi fossero come dei pittori tormentati che si struggono per decidere quale sfumatura di azzurro mettere sulla tela era un inverosimile travestimento di una realtà prosaica».

I pensieri di Cliff coincidono molto con quelli di Tarantino: Kurosawa per esempio «possedeva un dono innato per mettere in scena la tragedia, il melodramma e il pulp, così come un talento da disegnatore di fumetti (Cliff era un gran fan della Marvel)». Sebbene anche Kurosawa viene distrutto nel momento in cui crede ai critici e comincia a fare film d'autore, «cedendo il passo a Kurosawa romanziere russo», una noia. Non viene risparmiato neppure Federico Fellini, «all'inizio lo prese bene, se solo ci fossero state risparmiate le stronzatine alla Charlot che faceva la moglie. Molto meglio se la moglie non ci fosse stata proprio. I primi film in bianco e nero erano proprio belli, ma dopo che Fellini decise che la vita è un circo, Arrivederci».

Il romanzo pullula di una storia del cinema vista da Tarantino come solo un grande regista può fare, ma la scrittura com'è? Asciutta, semplice, quasi di genere (quel «quasi» su cui stanno in bilico molti capolavori di Quentin), con un ritmo incalzante, sicuramente pulp ma pure coltissimo senza mai essere noioso.

Chi ha visto il film legga il romanzo, chi non ha visto il film lo veda o legga prima il romanzo e poi veda il film, e in ogni caso benvenuto Quentin nel mondo della letteratura, qui in Italia altrettanto pieno di tromboni da eliminare come fa Beatrix con gli ottantotto folli in Kill Bill, credimi.

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