Il gigante buono esiste solo nelle favole e se n’è accorto pure il re, del tennis in questo caso, che si è ritrovato alla fine senza lo scettro. Juan Martin Del Potro si porta in giro 198 centimetri che scarica tutti nella racchetta e con questa potenza, con il suo dritto devastante, ha recuperato una finale che Re Federer a un certo punto ha giocato un po’ da snob, avanti un set e un break e con il sesto successo consecutivo troppo nel mirino. Così alla fine del quinto set, dopo più di quattro ore, la vera lezione è che non si può essere mai sicuri di nulla nella vita, neppure - come dicono di solito i nostri giocatori cercando esempi, o meglio alibi - che pure gli argentini sono forti solo sulla terra battuta. Perché se uno a 20 anni viene da Tandil e conquista il cemento di New York vuol che nella vita basta faticare un po’ di più per ottenere quello che si vuole.
Juan Martin insomma è una sorpresa solo per chi non l’ha visto prima di ieri: aveva già fatto tremare Federer in semifinale al Roland Garros e stavolta il quinto set è stato tutto suo, con Roger sfinito e un po’ spento, anche perché a questo livello 8 anni di differenza cominciano a farsi sentire. Il tabellone insomma segnava questo: 3-6, 7-6, 4-6, 7-6, 6-2. E gli occhi del gigante poco buono erano già pieni di lacrime nel - come da copione del dopopartita - «giorno più bello della mia vita», mentre il solito solerte dirigente americano rimbalzava la sua richiesta di poter ringraziare anche in spagnolo («fai in fretta che non abbiamo tempo») perché premevano gli sponsor.
Ma la vera lezione del secondo tangheiro di sempre nell’albo d’oro del torneo (il primo però, cioè il mitico Guillermo Vilas, vinceva sulla terra verde di Forrest Hill) è tutta nostra, visto il modo in cui i nostri migliori giocatori hanno salutato la compagnia al primo turno, forse senza neppure vergognarsi un po’. Juan Martin potrebbe spiegare qualcosa all’amico Bolelli (anche se Simone in verità è il meno terraiolo di tutti) e soci, ovvero che la differenza tra un argentino e un italiano non è una barzelletta e che non bastano infortuni e sfortuna a spiegare il fatto che lui arriva a vincere gli UsOpen e a salire al numero 5 nel mondo, mentre noi - dicono i rumors - cominciamo già ad agitarsi in vista del weekend. Quando a Genova contro la Svizzera ci si gioca il ritorno tra i grandi della Coppa Davis sperando che Federer, già in arrivo con volo privato, decida che è troppo stanco per giocare anche i singolari.
Già, c’è differenza se uno è costretto a cercarsi il tennis per vivere standosene in Europa sei mesi l’anno e potendo contare solo sulle sue vittorie per guadagnarsi la pagnotta rispetto a chi vive di tennis preferendo spesso ingaggi e lucrosi inviti in tornei minori vicino a casa, visto che siamo il Paese con più challenger e futures e al 90 per cento sull’amata terra. O magari in serie A, come capita ai nostri giocatori, nel campionato che dovrebbe promuovere i circoli e il loro vivaio e che invece finisce per essere il materasso dove infilare altro bottino invece di andare a sfidare i migliori nei tornei che contano. Proprio la serie A, tra l’altro, dietro le cui quinte si nasconde - appunto secondo quei rumors, e chi li riporta e degno di grande fiducia - l’ennesimo fronte tra giocatori e federazione alla vigilia della Davis. E vi risparmiamo i particolari per imbarazzo.
Insomma, Juan Martin Del Potro ha vinto uno Slam a 20 anni e minaccia di
non fermarsi qui, se pure Federer non sembra poi così scosso: «Inutile cercare scuse, ha meritato lui». E a noi resta il solito finale, ovvero che nel nostro tennis il gigante buono ancora non esiste. Neppure nelle favole.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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