Una stanza luminosa in fondo al lungo corridoio quasi dechirichiano. Annibale Carenzo, un veterano del Palazzo, mi afferra per un braccio: «Vieni, ti presento Borrelli e D'Ambrosio». Dev'essere la fine del '92 e Mani Pulite viene avanti come un treno giapponese, travolgendo tutto e tutti. Pur con qualche vistosa, coloratissima, eccezione. Entro in punta di piedi, come se fossi nel sancta sanctorum del Tempio. Gerardo D'Ambrosio ha la mascherina e non dà la mano, dopo un delicato trapianto di cuore. Borrelli è indaffaratissimo: fisso quell'immagine dentro di me perché quella per me è la Storia, quella che conta.
Mani pulite è addosso a Craxi e sta segando l'albero del pentapartito. Quegli uomini - i Di Pietro, i Davigo, i Colombo - che rivedo una domenica sul sagrato della chiesa di San Pietro in Gessate, di passaggio dopo un aperitivo da Taveggia, duecento metri dal Tribunale - sono i più popolari d'Italia e la vulgata è che stanno purificando il Paese dalle scorie della corruzione e del malcostume dilagante.
È vero, ma forse c'è anche altro, oltre la mia emozione e quella di un popolo intero che si è messo a contare le teste che rotolano. «È in pericolo il bene comune», mi dice un giorno don Luigi Giussani, come sempre dalla vista acutissima.
Quasi trent'anni dopo, la parabola sembra chiudersi fra scandali, macerie, scene grottesche di verbali circolati sottobanco nel gran Sinedrio del Csm, a sua volta affossato da dimissioni a raffica.
Guardi nello specchietto retrovisore di questa lunga stagione e ti chiedi come sia stato possibile passare dalle standing ovation a questo disastro, dai proclami in tv sul valore non negoziabile della legalità alle frasi a mezz'asta, in un susseguirsi di situazioni imbarazzanti. Prima Luca Palamara, il grande pentito della magistratura, la toga che finalmente svela dall'interno il sistema delle correnti e la lottizzazione capillare, senza trascurare nemmeno uno strapuntino; poi sono comparsi i verbali dell'avvocato Amara, portati in giro in un modo quasi surreale come una Madonna pellegrina, e utilizzati - questo il sospetto - per regolare conti in sospeso dentro la magistratura. Non è un bello spettacolo vedere che Davigo, ormai in pensione dopo aver provato a resistere dentro la cittadella del Csm, sia il postino di quelle carte in cui Amara, con grande sfoggio di fantasia, infilza un pm perbene come Sebastiano Ardita, cofondatore con Davigo della corrente Autonomia e Indipendenza, dentro la fantomatica loggia Ungheria, parterre affollatissimo e improbabile di servitori dello Stato che avrebbero servito i propri interessi. Davigo e Ardita - un Pavese di stampo piemontese rigorosissimo contro le mazzette e un catanese in prima linea contro il malaffare impregnato di Cosa nostra - si erano messi insieme per cambiare la giustizia. È finita che anche nel solito Sinedrio del Csm non si salutavano più. Veleni & fratelli coltelli. E fa impressione vedere che Davigo se la prenda con Francesco Greco che con lui cominciò sulla sponda di Mani pulite e oggi da procuratore della repubblica, seduto sulla poltrona che fu di Francesco Saverio Borrelli, avrebbe tergiversato pattinando sulla crosta sottile di quelle dichiarazioni scoppiettanti.
Crepe feroci in un edificio che allora, all'alba della Seconda repubblica, appariva un Quirinale bis abitato da una squadra affiatatissima.
«Il Pool è un'orchestra», scrivevano i giornali, sincronizzata a meraviglia, con Borrelli sul podio del direttore. In realtà era un ensemble di violini solisti e col tempo, con il manipulitismo, tutta la magistratura si è riempita di violini di fila convinti di essere artisti.
«Mani Pulite - sintetizza l'avvocato Gaetano Pecorella, uno dei più noti penalisti italiani, già difensore del Cavaliere e parlamentare azzurro - è il momento in cui la magistratura diventa potere. E così segna la propria fine».
Pecorella afferra insomma una stagione e la sintetizza sul filo del paradosso: «Il potere non basta mai e quel che è successo dopo, fino all'epilogo sconcertante di questi mesi, ne è solo la fatale evoluzione».
C'è un prima, naturalmente. È la lunga marcia cominciata molti anni prima, all'epoca di Palmiro Togliatti che a sua volta aveva studiato la lezione gramsciana.
I magistrati progressisti cominciano progressivamente a marcare la loro presenza fra i giudici. Il Sessantotto è un acceleratore strepitoso delle loro ambizioni, del disegno egemonico coltivato da Botteghe Oscure e più in generale del cambiamento di un mondo considerato il cane da guardia del potere democristiano.
«Il movimento - si legge nella mozione costitutiva di Magistratura democratica dell'autunno 1964 - si pone di indirizzare l'attività associativa ad una radicale svolta, che la situazione generale del Paese e le aspettative in essa prepotentemente affiorate rivelano ormai matura. Tali aspettative si concretano nella richiesta ognora più pressante di rottura delle strutture istituzionali ereditate da un lontano e tragico passato e nella esigenza di instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione».
Questo il linguaggio di quegli anni, formidabili non solo per Mario Capanna, ma anche per legioni di toghe convinte di poter coniugare professione e militanza.
Ecco gli ortodossi, gli iconoclasti e i frondisti, i radicali e i riformisti, ma un fatto è certo: si stabilisce un legame preferenziale, quasi un cordone ombelicale, fra la casa madre del Pci-Pds e vasti settori della magistratura. Una liason che segue almeno due percorsi: la penetrazione nella piramide del potere giudiziario, su su verso i vertici, e l'affermarsi di una mentalità nuova, a colpi di sentenze e processi che cambiano le linee della giurisprudenza.
Si arriva dunque a Mani pulite e il Pool si incarta sulla porta di Botteghe Oscure. Ma la consacrazione di quel pugno di magistrati, venerati da tutto il Paese come eroi senza macchia e senza paura, modifica gli equilibri e cambia il tavolo.
Quel legame si allenta e progressivamente salta: l'ago della bussola indica altre direzioni. C'è sempre il rapporto forte con la sinistra, ma quella consonanza va sfarinandosi, anche se l'antiberlusconismo, con l'elmetto indossato, compatterà per anni i giudici italiani. E però quel virus descritto da Pecorella sembra entrare nell'organismo della magistratura italiana che nella fase della sua massima forza non si accorge di essersi ammalata. «Quel che non è riuscita a fare la politica lo fanno le toghe da sole- aggiunge Pecorella - schiacciando il tasto dell'autodistruzione». I partiti restano sempre più sullo sfondo, intanto le correnti, onnipresenti, cominciano ad azzannarsi anche se alla fine trovano sempre il modo di spartirsi incarichi e poltrone. Ci vorranno anni e anni perché questa deriva, denunciata da rari grilli parlanti, emerga allo scoperto. Certo, la celebrazione dei pm capaci di sconfiggere con la spada lucente della giustizia il male va avanti ma nel tempo perde slancio, anche perché l'epopea dei primi anni Novanta, giusta o sbagliata che fosse, è irripetibile. Il declino è già avviato, pure se nessuno o quasi pare rendersene conto. Poi il sistema s'inceppa e Luca Palamara, potente ex presidente dell'Anm, vuota il sacco, e nel libro scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti racconta la storia del cecchino: chi tocca il sistema è fuori, c'è sempre una carta compromettente in qualche cassetto e c'è sempre qualcuno, quando serve, pronto a tirarla fuori. È appunto il cecchino. Infallibile, o quasi, nella guerra per bande che consuma il prestigio della corporazione.
Certo, e non è retorica affermarlo, la stragrande maggioranza dei giudici fa
egregiamente, è più che egregiamente, il proprio lavoro. Lontano dagli spifferi delle manovre e dalle tossine dell'ideologia. Si attendono rimedi, ma il cielo è scuro. A dirla tutta, forse il peggio non è ancora arrivato.
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