Le rovine del castello di Coucy dominano uno sperone roccioso della Piccardia, a venti minuti di macchina da Soissons, a meno di un'ora da Compiègne e da Saint-Quentin. Al tempo in cui il maniero venne eretto, la prima metà del XIII secolo, con le sue quattro torri, il torrione che le sovrastava e il donjon, il mastio, che ne costituiva il corpo centrale, dominava l'accesso a nord verso Parigi, una promessa di difesa e una minaccia d'offesa verso quella corona di Francia che dalla capitale avrebbe dovuto fare da garante dell'istituzione monarchica... Nel Medioevo l'idea di castello aveva significato la prosecuzione e insieme la negazione di ciò che nell'età classica era stata la villa romana, la cui fortificazione non stava nelle mura, ma nelle leggi e nelle legioni. Crollato l'impero, e con esso l'impalcatura giuridica, politica e militare che l'aveva retto, la nuova società medievale si era parcellizzata, la Chiesa e i monasteri, le baronie, il terzo stato urbano, e i castelli la punteggiavano non in quanto residenze, ma come simboli di potere militare feudale in un'epoca in cui gli eserciti nazionali permanenti non esistevano. Il motto dei Coucy, nella sua semplicità, dà un'idea del complicato quanto orgoglioso rapporto di vassallaggio: «Re non sono,/ né principe, né duca, né conte:/ Sono il signore di Coucy».
Per tutto il Trecento, grazie soprattutto a Enguerrand VII, e fino alla metà del secolo successivo, i Coucy rimasero fedeli alla corona di Francia, ma quando questa, dopo la morte di Enrico IV, cominciò a essere oggetto della disputa fra gli Orléans e i Borbone, il ritrovarsi per successiva annessione fra i primi trasformò il castello nel focolaio della cosiddetta Fronda contro i secondi che ebbe il suo apice seicentesco nella reggenza, data la minore età di Luigi XIV, del cardinale Mazzarino. Sarà quest'ultimo a ordinarne la demolizione manu militari nel 1652, senza però riuscire a demolire l'imponente donjon. Un secolo dopo, quando Luigi Filippo d'Orléans votò per la messa a morte di suo cugino Lugi XVI, per poi venire a sua volta decapitato dalla rivoluzione repubblicana, le sue proprietà, Coucy compresa, passarono allo Stato.
Particolare curioso: il più lucido teorico del regicidio, in quanto «non si governa innocentemente», ovvero Saint-Just, da studente liceale a Soissons aveva compilato una monografia sul castello e i suoi signori, in specie Enguerrand VII, la figura più di spicco, una via di mezzo fra una tesina scolastica meramente compilativa e una prima, per quanto molto acerba, prova d'autore.
Per tutto l'Ottocento, i tentativi di restaurare Coucy rimasero più o meno lettera morta: costava troppo e, insomma, era vittima proprio di quell'imponente magnificenza che così tanto aveva significato nei secoli. A buttare giù il donjon di Coucy sarà la Prima guerra mondiale: il generale tedesco Ludendorff lo fece imbottire di 28 tonnellate di dinamite e poi diede l'ordine di farle esplodere. Oggi le sue rovine continuano a dominare quell'altipiano della Piccardia e il visitatore si trova di fronte le sue torri sbreccate e, al suo interno, tunnel sotterranei, archi di porte, pezzi di mura, pietre sparse, architravi recanti il simbolo dei Coucy, un cavaliere senza armatura che combatte contro un leone...
Enguerrand VII, il castello e la dinastia dei Coucy sono il cuore del bellissimo libro, una specie di contraltare dell'Autunno del Medioevo di Huizinga, che Barbara W. Tuchman scrisse ormai mezzo secolo fa, Uno specchio lontano, e che ora torna in edizione italiana, mantenendo la traduzione fatta allora dalla Mondadori, ma con un'introduzione ad hoc di Pier Luigi Vercesi (Neri Pozza, pagg. 800, euro 23, traduzione di Giovanna Paroni). È una riproposizione quanto mai opportuna perché se, come spiega il sottotitolo, il Trecento fu per eccellenza «Un secolo di avventure e di calamità», nel gioco di specchi a cui rimanda il titolo è possibile cogliere, come nota Vercesi, un'attualità sconcertante: «La grande epidemia giunta dall'Oriente che scatena la paura nel mondo intero, due Papi a rappresentare distinte anime della Chiesa, l'Islam che dilaga in Europa, la Gran Bretagna che si isola dal continente, le disuguaglianze in crescita, le proteste populiste, reali o fomentate, le crisi economiche, predatori che si avvalgono della spada finanziaria. E una grande ipocrisia che avvolge tutto».
È stato un illustre storico dell'Ottocento, Jules Michelet, a definire il Trecento un po' folle, o meglio: «Nessuna epoca fu più naturalmente pazza». Se la consapevolezza del proprio interesse è il criterio con cui si valuta la sanità, aggiunge la Tuchman, è difficile dargli torto. Si prenda l'idea di un antipapa, Clemente VII, voluto fortemente dai francesi, temuto e odiato da tutta l'Italia, per nulla amato nel resto del continente, uno scisma del tutto insensato che sarebbe andato ad aggiungersi a uno stato di guerra ormai endemico, alla pestilenza, la terribile «morte nera», alle compagnie di ventura. Si prenda la rissosità italiana: «Non appena una potenza si univa a un'altra contro una terza per un profitto immediato, tutte le altre alleanze e le inimicizie mutavano, quasi come in una quadriglia del Trecento. Venezia era in lotta con Genova, Milano istigava l'una contro l'altra e intanto litigava con Firenze e con vari principati del Piemonte, Firenze bisticciava con le sue vicine - Siena, Pisa e Lucca - e formava varie leghe contro Milano; la politica del Papato teneva tutti in fermento».
È fuori di dubbio che ci fosse una psicosi comune ai governanti del Trecento: l'incapacità di frenare gli impulsi. Era anche qualcosa che aveva a che fare con l'atrocità della natura, la sua durezza, l'inclemenza del tempo, ma non le era estranea la condizione umana, un modo di vivere che era anche un costume sociale. La Tuchman lo individua nelle compagnie di ventura, più utili come truppe di combattimento di quanto non lo fossero i cavalieri, «che aspiravano alla gloria e ignoravano il principio del comando» e che quindi, in specie se francesi, andavano sempre incontro a disastri militari per superbia, orgoglio, cecità. Se i suoi ranghi più bassi provenivano dagli emarginati, delle città, delle campagne, o dagli scarti delle varie attività, Chiesa inclusa, i loro capi venivano dall'alto: signori o cavalieri sconfitti, per i quali una vita senza spada era un non senso. Varrà la pena di ricordare che il termine «condottiere», usato in Italia, non veniva dal condurre, dal comandare, ma «dalla condotta o contratto che stabiliva i termini del loro ingaggio come mercenari. Si avvalevano dei servizi di notai, avvocati e banchieri che si occupavano dei loro affari, trattavano tramite regolari mediatori che si occupavano di vendere il bottino, si infiltrarono nella struttura sociale».
Eppure tutto ciò non riesce a spegnere il sole del Medioevo, un sole reale, non un sole ingannatore. È nei due secoli del Basso Medioevo che viene in uso la bussola e l'orologio meccanico, il filatoio e i mulini, che Marco Polo arriva in Cina, che Tommaso d'Aquino organizza il sapere, che Giotto dipinge il sentimento dell'uomo, che Dante configura «il suo grande disegno del destino umano e lo scrive in vernacolo». Le grandi cattedrali, nota ancora la Tuchman, «trionfi di creatività, tecnologia e fede non furono costruite col lavoro degli schiavi».
Si comprende allora meglio perché al centro di questo gigantesco ritratto di un'epoca ci sia una figura pressoché sconosciuta e all'apparenza secondaria rispetto alla sfilata di re, papi, capitani di ventura, agitatori di masse, santi e mistici vari. Perché Enguerrand VII, che fa da filo conduttore del libro, è un concentrato trecentesco dove sono le doti positive ad emergere. Genero di Edoardo III d'Inghilterra, riesce a mantenersi equidistante fra la sovranità inglese acquisita e quella francese di nascita, è un abile comandante militare e un accorto diplomatico, ha saputo rifiutare cariche e onori, non si è mai lasciato vincere dal puro e semplice tornaconto, non gli si conoscono tradimenti o doppi-giochi. È, insomma, «il più esperto fra tutti i cavalieri di Francia», quello di cui ci si può fidare in un'epoca in cui non ci si fida di nessuno. Per certi versi, è l'ultimo esemplare di quell'ideale cavalleresco che aveva avuto la sua esaltazione a Roncisvalle, quando tutti i dodici pari di Francia erano caduti in nome della cristianità, e che avrà il suo definitivo sussulto a Orléans nel 1429, quando la diciannovenne Giovanna d'Arco incarnerà la riscossa della Francia e farà di un «delfino» contestato il re consacrato a Reims, Carlo VII.
Enguerrand VII era morto trent'anni prima, a Bursa, ostaggio di Maometto II dopo la disastrosa sconfitta
di Nicopoli. Il canto funebre che ne accompagnò il ritorno delle spoglie in patria lo descrisse «Fulgido e bello,/ saggio, forte e di gran liberalità/ un vero cavaliere sempre operoso/ e senza riposo». Luci del Medioevo.
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