Arte

Ingres e Delacroix, l'armonia degli opposti che racconta la Francia

Il neoclassico si celebra e il romantico cerca la gloria. I destini incrociati dei "geni nemici" o "gemelli diversi"

Ingres e Delacroix, l'armonia degli opposti che racconta la Francia

È una mostra strana e però interessante quella che sotto il titolo Ingres et Delacroix. Objets d'artistes accomuna in due tappe (al Musée Ingres-Bourdelle di Montauban dall'11 luglio al 10 novembre e al Musée Delacroix di Parigi sino al 10 giugno) due pittori diversissimi se non opposti fra loro.

«Oggetti d'artisti» mette infatti insieme non tanto l'opera, ma l'universo visivo e tattile in cui venne concepita: mobili, vasi, ricordi di viaggio, tavolozze, pennelli, cavalletti. E ancora: ritratti, caricature, lettere, libri, decorazioni, in una parola quell'insieme di cose che ne caratterizzò all'epoca l'importanza e ne fissò l'immagine presso i contemporanei, il primo, simbolo del neoclassico, il secondo portaparola del romanticismo, la linea, la purezza della linea, contro il colore, l'irruenza del colore.

La stranezza cui prima si accennava è per certi versi inevitabile. Rispetto al museo Ingres-Bourdelle che, per la parte che lo riguarda, fu voluto da Ingres stesso come la documentazione postuma della sua vita e della sua arte, il museo Delacroix è una creazione indipendente dalla volontà di quest'ultimo. Delacroix volle essere seppellito in un angolo appartato e sovrastante del cimitero di Père-Lachaise, dispose la vendita all'asta post mortem dei dipinti e dei disegni in suo possesso, lasciò in testamento agli amici ciò che nello studio di place Furstenberg gli aveva fatto compagnia sino ai suoi ultimi giorni.

Tanto, insomma, Ingres, sull'esempio di Canova, di Moreau, di Rodin, lavorò alla celebrazione di sé stesso, alla sua museificazione, tanto Delacroix puntò sulla fama che è tutt'uno con l'immortalità: «La gloria non è per me una parola vana. Il rumore degli elogi inebria di una reale felicità». Il paradosso del museo Delacroix è quello di nascere come un museo vuoto. Quando la «Società degli amici» che porta il suo nome decise, nel 1929, di salvare il suo atelier dalla demolizione, uno dei suoi membri notò sconsolato: «Non troveremo mai un Conservatore, perché nessuno si assumerà il ridicolo di essere nominato il Conservatore, con la c maiuscola, di quattro mura vuote che non avrebbero come ornamento che le tazzine da caffè e il vaso da notte del maestro»...

Questo diverso modo di porsi di fronte alla propria arte ha probabilmente a che fare con le biografie stesse di questi due pittori. Più vecchio di diciotto anni, bambino quando scoppiò la Rivoluzione, di estrazione borghese, nato in una piccola città di provincia, minuto di statura, poco più di uno e cinquanta, e di scarsa avvenenza, Ingres fu allievo del David divenuto pittore ufficiale dell'Impero dopo essere stato il pittore ufficiale della Repubblica, e come il suo maestro riuscì a barcamenarsi fra cambi di regime, di dinastie e di re. Nato quando Napoleone era ancora Primo console, Delacroix era figlio di un ministro e di un ambasciatore della Prima repubblica, nipote di un prefetto dell'Impero, fratello di un ufficiale della Grande Armata e insomma un classico prodotto dell'élite della Francia napoleonica, di cui la sua famiglia condivise l'ascesa, ma anche la caduta, rovina finanziaria compresa. Ciò lo rese diffidente nei confronti del potere politico, con cui mantenne la distanza sufficiente a evitargli qualsiasi lavoro di propaganda servile.

Al fisico infelice del primo, sostenuto però da una salute di ferro che lo mantenne attivo fino a quasi novant'anni, faceva riscontro la «bellezza feroce, strana, esotica, inquietante» del secondo, stante la descrizione di Baudelaire, ma anche la sua fragile costituzione: malaria a vent'anni, difficoltà respiratorie e quaranta, la morte quando ne aveva 65... Infine, tanto Ingres era scarso di eloquio, tanto Delacroix era fiammeggiante, con l'aggiunta di un talento di scrittore del tutto mancante nell'altro.

Nella mostra, i due destini incrociati tendono a essere presentati come «gli eroi involontari di un duello al vertice», «geni nemici» secondo il mito costruito intorno a loro, ma in realtà «gemelli diversi»... Per quanto ci possa essere del vero in questi approfondimenti critici successivi, frutto di riflessioni sottratte al tempo e alle polemiche che porta con sé, resta l' impressione che i contemporanei non avessero poi tutti i torti nel vederli contrapposti e in fondo avversari. Non è naturalmente un giudizio di valore, ma una semplice constatazione, laddove la pittura di Ingres sembra stagliarsi all'interno di uno spazio ben delimitato e quella di Delacroix sembra sempre sul punto di spiccare il salto... Per quanto si sia soliti dire che «gli opposti si attraggono», non ci fu mai tra Ingres e Delacroix la scintilla di un'amicizia e il primo, onusto di gloria quanto di riconoscimenti, fece la sua parte per evitare che li conoscesse anche il secondo: per sette volte l'elezione all'Académie des Beaux-Arts venne a quest'ultimo rifiutata e in quel rifiuto Ingres fu tra i più attivi...

Fra gli oggetti dell'esposizione spiccano il celebre, per metafora, violino di Ingres, quello da lui suonato da ragazzo, i vasi e le ceramiche greco-romane da lui accumulati, nonché i mobili in stile neorinascimentale, i fermacarte animalier, i pugnali indiani e i sigilli arabi di Delacroix. Lettore di Omero, cultore di Raffaello, del quale conservava religiosamente parte delle ceneri, donategli dallo scultore svedese Thorvaldsen presente alla riapertura della tomba, Ingres era un ammiratore senza complessi dei grandi del passato: «Ammiro i maestri, mi inchino davanti a loro, ma non li copio. Ho succhiato il loro latte, me ne sono nutrito, ho cercato di appropriarmi delle loro qualità, ma non faccio delle imitazioni». E ancora: «È guardando le invenzioni degli altri che si impara a inventare sé stessi».

A detta di chi lo frequentò all'epoca, l'atelier di Delacroix non aveva nulla di esotico. Tutto ciò che era ornamento orientale, frutto dei suoi viaggi in Marocco e poi in Spagna, babbucce, mantelli, armi, gioielli, era riposto in bauli chiusi, a fianco di un mobilio stile impero ormai fuori moda: «Il fasto e l'esibizione mi fanno orrore. Amo le vecchie cose, i mobili antichi. Ciò che è del tutto nuovo non mi dice niente. Voglio che il luogo che abito, che gli oggetti di cui mi servo mi parlino di ciò che hanno visto, di quello che sono stati e di ciò che è stato con loro». Quanto a Ingres, a eccezione di Roma e di Firenze, non si mosse mai da Parigi.

Le sue odalische, i suoi bagni turchi erano il puro frutto di un'esperienza letteraria, le lettere di Lady Montagu, moglie dell'ambasciatore inglese a Costantinopoli all'inizio del XVIII secolo, della visione di alcune incisioni della stessa epoca...

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