Letteratura

Moravia e Ginzburg non sarebbero al Salone del libro di Torino

Il «no» alla presentazione dei libri dei candidati limita il corso delle idee. Altro che par condicio

Moravia e Ginzburg non sarebbero al Salone del libro di Torino

C'’è del marcio in Occidente è il titolo del nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi, noto matematico, filosofo e scrittore che sa di non andare a fare il parlamentare europeo ma anche di non poter presentare il suo libro al mitico Salone del libro di Torino perché è candidato per Pace Terra Dignità, per un nobile slancio pacifista, al Parlamento europeo dove non andrà, come Raniero La Valle, Ginevra Bompiani, Nicolai Lilin, Vauro, Pino Arlacchi, Angelo D’Orsi, tutti candidati, quindi scrittori interdetti o subordinati.

Per loro il Salone è inaccessibile, si sono contaminati con la politica, hanno accettato una candidatura (benché impossibile, quindi letteraria) in nome di ideali che Odifreddi ben racconta. Può anche accadere che, per interposta persona, una candidata impossibilitata ad andare a Torino, Ilaria Salis, sia rappresentata da altri come Zerocalcare, e che questo sia apprezzato e lodato, per la ingiusta condizione cui è costretta una persona non condannata, attraverso l’incivile gogna della carcerazione preventiva. È giusto, è nobile che se ne parli; ma le regole che, nel tempio del libro, escludono Odifreddi e interdicono la parola, se non con il contatore in televisione, anche a chi ha vissuto nei libri come Ginevra Bompiani, improvvisamente si annullano per una attività di propaganda diretta a un candidato alle elezioni europee per cui si combatte una battaglia di libertà, e si dimostra che la politica trae linfa dall’arte e dalla letteratura.

E infatti, non intendevo lamentarmi della condotta nei miei confronti degli organizzatori del Salone del libro i quali, d’altra parte, hanno equanimemente escluso anche Lucia Annunziata, già invitata a presentare un libro su Israele, e poi candidata del Pd nella circoscrizione Sud, ma della estensione di regole discutibili stabilite con la par condicio per la comunicazione televisiva. Un libro non può determinare alterazioni della libera scelta degli elettori se non per nobili trasmissioni di idee, che non riguardano i minuti di presenza.

Se le regole valgono solo per i candidati, potrebbero senza limitazioni intervenire al salone Salvini o Conte, non in lista ma esponenti influenti di visioni politiche più di qualunque candidato. Il principio che io ho messo in discussione non è assoluto, se valutiamo che non era palesemente stato applicato nel 2009, già in regime di par condicio, come testimonia e dichiara Carlo Vulpio: «Libri e candidature, solo ipocrisia bigotta. Nel 2009 ero candidato con IdV alle Europee in TUTTE le circoscrizioni e presentai al Salone di Torino il mio libro La città delle nuvole, che racconta dei disastri dell’ex Ilva di Taranto sulla salute della gente (soprattutto bambini) e sull’ambiente. Un libro senza dubbio più “politico” di quello su Michelangelo che si è impedito di presentare a Vittorio Sgarbi (tra l’altro candidato alle Europee nella SOLA circoscrizione Sud). Nessuno ebbe da ridire. Né prima, né durante, né dopo quella presentazione.

In materia di libertà di manifestazione del pensiero, 15 anni dopo, ne abbiamo fatta di strada. All’indietro».
Per questo auspicavo che le idee, e i libri che le portano, fossero più forti delle regole che mortificano il primato della cultura di cui la politica è espressione. Così era per Benedetto Croce, storico e ministro. Così non è oggi, quando ai ministri è prescritto di non essere storici. E subiamo il primato della politica sulla cultura, mondi separati e incomunicanti. Che devono essere tenuti lontani. Eppure non sono figure politiche oggi scrittori come Saviano e Scurati, per cui non ci sono preclusioni? E la loro letteratura non è politica, ben più dei miei libri d’arte? Dovremmo invece rassegnarci a politici ignoranti? Non può legittimarlo il Salone del libro di Torino. Perché non si può pensare, se non in suprema decadenza, politica senza cultura.

Un grande scrittore e filosofo di Torino, Norberto Bobbio scrisse il saggio Politica e cultura per mettere in ordine valori coincidenti e sovrapponibili, da Socrate a Platone, da Aristotele a Machiavelli, da Hegel a Croce. E sarebbe stupito che, nell’anno delle celebrazioni per Giacomo Matteotti, si tenga la politica fuori del Salone, come appestata nello strumento fondamentale, per la valutazione delle idee che sono le elezioni. Gramsci, Gobetti e Matteotti candidati non potrebbero parlare al Salone. È una evidente stortura.

Chiedo ai responsabili, come alla amica Annalena Benini, di ripensare proprio alle parole di Bobbio, e ricordo che Natalia Ginzburg, la cui Vita immaginaria è l’emblema di questo Salone, fu candidata ed eletta in Parlamento in due legislature, la IX e la X. Se ci fosse stato il Salone non sarebbe stata invitata? E Alberto Arbasino, deputato nella IX? E Leonardo Sciascia, deputato nella VIII? E Alberto Moravia, deputato al Parlamento europeo? Metà della grande letteratura italiana sarebbe stata esclusa dal Salone, in virtù di una legge concepita per gli spazi televisivi? E non applicata nel 2009.

Quale mente perversa, nella città di Einaudi, ha inventato questa aberrazione? Bobbio, cui ebbi l’onore di essere a fianco in Parlamento (anche lui candidato), riafferma il principio secondo cui «l’irresponsabilità di chi detiene il potere è uno dei tratti caratteristici di un governo autocratico, mentre la democrazia, nella qual viviamo e intendiamo continuare a vivere, è caratterizzata, almeno teoricamente, dal principio della responsabilità. In democrazia nessuno è - o dovrebbe essere - irresponsabile. In questo senso parlare di responsabilità degli intellettuali significa che anch’essi come tutti debbono rispondere a qualcuno. Beninteso, qui parlo della responsabilità politica dell’intellettuale, o se volete della responsabilità dell’intellettuale rispetto alla sfera della politica in cui vive o di cui è, volente o nolente, una parte.

A questo punto s’innesta il discorso intorno al rapporto tra intellettuali e politica: la cultura non dev’essere apolitica, ma la sua politica non è la politica tout court, quella che noi chiamiamo abitualmente la politica ordinaria, ma è una politica propria della cultura, che non coincide, non deve coincidere, con la politica dei politici. Quando parlo di una dimensione politica della cultura, intendo parlare di una politica diversa dalla politica dei politici - della cosiddetta politica ordinaria -, di un’azione che pur rientra in una concezione larga della politica, intesa come un’attività volta alla formazione e alla trasformazione della vita degli uomini. Non c’è solo la politica dei politici. Se ci fosse solo la politica dei politici non ci sarebbe posto per i grandi dibattiti delle idee. Naturalmente una posizione di questo genere, in cui io fermamente credo, presuppone il principio dell’autonomia della cultura, o almeno di un’autonomia relativa della cultura».

Non basta, per tornare alla ragione? Le idee, i pensieri non si devono ostacolare quando possono, nei momenti fondamentali come le elezioni, determinare le scelte, favorire la democrazia. Si votano le idee, i grandi principi su cui si fonda la vita pubblica, nel suo ordinamento che la politica interpreta, si votano gli interessi di parte, le promesse, le menzogne, gli artifici e gli inganni dei politicanti. Nessuno è più candido di un candidato che oggi è considerato contaminato. I voti dovrebbero premiare i suoi pensieri.

Sarei stato orgoglioso di votare Natalia Ginzburg o Alberto Moravia se li avessi ascoltati al Salone di Torino dove li ho incontrati durante il loro mandato. Diteci che Matteotti, contaminato quando era candidato, non avrebbe potuto partecipare al Salone del libro. Ditecelo.

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