Letteratura

Ecco il "Polo" di Nabokov, un dramma vissuto in apnea

Ispirato alla spedizione del 1912 di Robert Falcon Scott, verrà presentato in luglio al Festival di Radicondoli

Ecco il "Polo" di Nabokov, un dramma vissuto in apnea

Il ragazzo nato a San Pietroburgo vent’anni prima ha la faccia eterea, pare una falena: così dice la fotografia sul passaporto. Rampollo dell’alta nobiltà russa - le cui origini pare risalgano a un principe tataro del XIV secolo -, Vladimir Nabokov s’imbarca in Crimea su una nave da carico che batte bandiera greca. È il 1919 e il padre, Vladimir Dmitrievic Nabokov, parlamentare progressista, è tra quelli che i Bolscevichi vogliono eliminare per primi; il nonno, Dmitrij, era stato ministro della Giustizia sotto lo zar Alessandro II.

Nabokov- il futuro scrittore - compie vent’anni ad Atene.

Costantinopoli ha rifiutato di accogliere la sua famiglia e «per giorni i Nabokov si trascinano su un mare agitato, mangiano biscotti per cani, dormono per terra» (così Stacy Schiff in un servizio pubblicato sul New York Times nel 2019, «Vladimir Nabokov, Literary Refugee»). Dalla Grecia, partenza per l’Inghilterra: Nabokov si iscrive al Trinity College, Cambridge; il resto dei familiari sceglie Berlino, ricovero dei russi in esilio.

Quarant’anni dopo, in seguito all’uscita di Lolita, il film di Stanley Kubrick tratto dal suo faunesco, scandaloso romanzo, Nabokov dirà del rifiuto, radicale, di tornare in Russia. «Non ci tornerò mai, per il semplice motivo che tutta la Russia di cui ho bisogno è sempre qui con me: la letteratura, la lingua, la mia infanzia russa. Non ci tornerò mai.

Non mi arrenderò mai. D’altronde, l’ombra grottesca di uno Stato di polizia non sarà cancellata entro l’arco della mia vita». La sola patria è la lingua, la letteratura, l’immemore infanzia. La Bbc aveva dovuto rincorrere Nabokov a Zermatt: era lì a cacciare farfalle.

Come si sa, Nabokov nasce alla letteratura con Mašen’ka (tradotto da Ettore Capriolo come Maria, nel 1971, per Mondadori, è ritornato in sede Adelphi nel 2022, con il titolo originale, nella versione di Franca Pece), il romanzo pubblicato in Germania nel 1926 sotto la celata dello pseudonimo, V. Sirin. La primissima folgorazione letteraria, tuttavia, accade durante una visita al British Museum. Incidentalmente, sotto teca, Nabokov scopre i diari di Robert Falcon Scott, l’intrepido capitano che con il «Terra Nova», leggendaria baleniera varata a Dundee nel 1884, aveva tentato di vincere il Polo Sud.

Morì lungo la Barriera di Ross, nel marzo del 1912, insieme ai suoi, Edward Wilson, Lawrence Oates, Henry Bowers, dopo aver scoperto di essere stato battuto da Roald Amundsen. Il giovane Nabokov fu affascinato da quella impresa nel niente, da quegli uomini inghiottiti dall’infinito bianco. Nel 1923, in una fattoria del sud della Francia non distante da Tolone, Nabokov termina una breve pièce tratta dall’avventura di Scott in Antartide; la intitola Polyus. Il testo è scritto in una situazione emotiva complessa: il padre di Nabokov viene ucciso il 28 marzo del ’22, nel tentativo di difendere da un attentato Pavel Miljukov, politico della sua stessa fazione. Esattamente dieci anni prima era morto il capitano Scott.

Polyusviene pubblicato sulla rivista russo-berlinese Rul’ nell’agosto del 1924, un secolo fa; quarant’anni fa il testo è tradotto in inglese dal figlio di Nabokov, Dmitri, in The Man from the USSR and Other Plays. Finora, nessuno si è premurato di riprenderlo e pubblicarlo come si deve. Nel 1996, a Berlino, Polyus esordisce a teatro, sotto la regia di Klaus Michael Grüber, già assistente di Giorgio Strehler. La traduzione in tedesco del testo è d’autore, è di Botho Strauß; a interpretare il capitano Scott c’è Bruno Ganz. Il lavoro gira qua e là- Zurigo, Losanna, Parigi - per poi stanziarsi nel dimenticatoio.

A ritentare la messa in scena di Polyus, ora, è Giovanni Guidelli, volto noto del cinema - ha lavorato per i Taviani e Daniele Luchetti ma anche con Johnny Depp e Helen Mirren- e dellafiction, avvezzo alle imprese “impossibili” (ha girato il corto C’era una volta a Ribolla, sulla tragedia della miniera toscana, accaduta nel 1954 e narrata con cruda verità da Luciano Bianciardi). Guidelli ha fatto tradurre il testo da Paola Lumachi, ha acquisito i diritti per la messa in scena: Il Polo, «dramma in atto unico» di Nabokov, andrà in scena per la prima volta in Italia al Festival Internazionale di Teatro di Radicondoli il 17 luglio prossimo; sono previste repliche a Firenze e a Roma.

«Vorrei ricreare visivamente una banchisa polare, il pack...una distesa bianca di nulla: abbacinante. E una singola tenda in mezzo. La stessa tenda che appare, minuscola e indifesa, nelle foto originali della spedizione», mi dice l’attore. Sei riuscito a fare ciò che l’editoria italiana non ha ancora fatto: tradurre un testo ritrovato di Nabokov, gli dico. Lolita al Polo Sud, penso, cancellando il pensiero. Il testo, lieve come brina, racconta gli ultimi giorni di Scott e compagni in Antartide. Si legge il delirio, lo sconforto («Colombo... ha sofferto, ma ha scoperto terre splendide, noi invece abbiamo patito per scoprire solo bianchi funesti deserti»), la prossimità con la morte. Scott spalanca il diario, «il mio umile, fedele libro d’ore», si forza alla preghiera, «devo pregare», e salmeggia, preda della bufera: «La mia vita, come l’ago di una bussola, ha oscillato e ha puntato verso il Polo - e questo Polo sei Tu... I miei sci hanno lasciato le loro tracce sulle tue nevi sconfinate. Nient’altro...». Infine, il crisma di una poetica: «d’altronde, agli uomini piacciono le fiabe, non è forse vero?». Scrivere è forse fare la posta nei luoghi inavvicinabili; e restare soli, in una tenda a mo’ di tempio, dilaniati dal grande bianco che per alcuni è Dio, per altri il nulla.

A un certo punto, il sodale di Scott, Fleming (in realtà, Wilson), dichiara la propria «insostenibile voglia di vivere»: vuole «una donna, il sole», oppure «inseguire un pallone». Nabokov non amava la neve, non amava sciare; gli piaceva il calcio. Giocava in porta. L’ultima partita la gioca nel 1936.

«Dopo uno scontro, nel fango, mi sono svegliato sul • lettino di un ospedale. Avevo preso la palla. L’avevo presa bene. Latenevo ancora sul petto mentre mani impazienti cercavano di strapparmela». Non mollare la presa era il consiglio più importante che impartiva agli studenti, increduli di fronte al più mefistofelico scrittore del secolo.

Al cospetto della sua mente, Antartide era un ghiacciolo.

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