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30 anni senza Senna: il vero volto del campionissimo nelle sue parole

Trenta anni dopo il terribile schianto al Tamburello che costò la vita di uno dei più grandi piloti di sempre, proviamo a scoprire il vero volto di Ayrton Senna ripercorrendo alcune delle sue frasi più memorabili

30 anni senza Senna: il vero volto del campionissimo nelle sue parole
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A volte un campione è talmente grande da riuscire in qualche modo a convincere non solo i rivali ma anche i suoi detrattori. 30 anni dopo il terribile schianto al Tamburello che pose fine alla vita di Ayrton Senna è troppo facile dipingerlo come l’eroe senza macchia, il talento sovrannaturale che se n’è andato troppo presto. Senna non piaceva a tutti: il sottoscritto, ad esempio, non lo poteva soffrire. Troppo serio, mai leggero come il mio idolo Nelson Piquet, uno che amava la bella vita e sembrava divertirsi sempre. Senna era diverso, nel bene o nel male. Eppure, nemmeno i suoi tifosi più scatenati conoscevano davvero il talento paulista. Proviamo a scoprire insieme il vero volto del campionissimo attraverso alcune delle sue dichiarazioni più memorabili.

Una bestia in pista

La frase forse più famosa del tre volte campione del mondo è quella che sembra incapsulare al meglio la sua visione draconiana del mondo delle corse. Senna era tanto timido e riservato fuori dalla pista quanto feroce ed aggressivo una volta abbassata la visiera. Nell’immediato post-gara del Gran Premio di Australia del 1990, appena vinto il suo secondo titolo mondiale con sette punti di vantaggio sul suo arcirivale Alain Prost, Senna sembrò in grado di riassumere la sua filosofia di corsa in maniera perfetta. “Essere un pilota da corsa significa correre contro altre persone e se non provi più ad inserirti in uno spazio che esiste non sei più un pilota, visto che stiamo lottando l’uno contro l’altro”.

Senna aveva un rapporto ambivalente con il mondo delle corse: viveva per la competizione, per lottare contro i suoi rivali ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto ci si potesse assuefare al pericolo. Una volta ebbe a dire: “La sensazione del pericolo è eccitante. La sfida è sempre trovare pericoli nuovi”. Allo stesso tempo, però, non aveva alcun problema ad accettare compromessi, qualunque cosa lo mettesse in grado di battere i rivali. Per come vedeva il mondo, non c’era niente di strano: “A volte bisogna scendere a compromessi per vincere, altrimenti non ce la fai. Questo è inevitabile: o corri sul serio o non corri”. Un approccio spietato, grintoso che non tutti nel mondo dei motori apprezzavano: Senna, insomma, non era simpatico a tutti. Il fatto che non se ne preoccupasse affatto faceva andare ancora più in bestia i suoi critici.

Il vero nemico? Se stesso

L’aspetto che era più difficile da accettare di Ayrton Senna è sempre stato il fatto che non fosse mai soddisfatto di quel che faceva in pista. Ogni volta che lo sentivi lamentarsi di questo o quell’errore anche dopo una gara dominata, sembravano le parole di un presuntuoso, irrispettose nei confronti dei rivali. Le cose stavano in maniera un po’ diversa. Correre per Senna non era un hobby: “Correre ce l’ho nel sangue, fa parte di me, della mia vita. Lo faccio da una vita ed è la cosa più importante di tutte”. Un approccio forse estremo, ma faceva parte della visione del mondo di Ayrton, per il quale la cosa fondamentale era continuare a migliorarsi. “Continuo ad andare avanti ed imparare quali sono i miei limiti, quello che il mio corpo e la mia mente può sopportare. È parte del mio stile di vita”.

Nonostante non concedesse spesso interviste, non sono mancate occasioni di scoprire come funzionava la mente di Ayrton Senna da Silva. Le frasi che tutti ricordano sono quelle secche, quasi irridenti nei confronti dei rivali, come quando ebbe a dire che “ogni pilota ha il suo limite. Il mio è un po’ oltre a quello degli altri”. In realtà non si trattava di insulti velati ma, molto più semplicemente, della verità: quando tutti in pista alzavano il piede dall’acceleratore, Senna lo teneva giù una frazione di secondo in più. Arrivarci, però, non era stato semplice: Senna non si accontentava mai. “Ogni giorno, quando ti trovi davanti ad un problema, pensi di avere un limite. Provi ad arrivarci, riesci a toccarlo e ti dici: ‘ecco, questo è il limite’. Il bello è che a questo punto succede qualcosa e ti rendi conto che puoi andare ancora un po’ oltre”. Senna adorava le corse perché erano il modo migliore di affrontare il nemico più grande: se stesso.

Una vita per gli altri

La naturale riservatezza del pilota paulista faceva in modo che l’aspetto più bello del suo carattere, quello che l’ha fatto entrare per sempre nel cuore del popolo brasiliano, lo tenesse in gran parte nascosto. Ancora oggi, trent’anni dopo la sua morte prematura, sono decine le istituzioni da lui fondate che aiutano centinaia di migliaia di bambini brasiliani. Nonostante fosse nato da una famiglia molto benestante, Ayrton aveva un rapporto conflittuale con la ricchezza, tanto da fargli sentire l’obbligo morale di fare qualcosa a proposito. Lo faceva in maniera mai eccessiva, quasi riservata, come a non offendere la sensibilità di chi era meno fortunato di lui. Una delle sue frasi più famose recita che “gli uomini ricchi non possono vivere in un’isola circondata dalla povertà. Respiriamo tutti la stessa aria. Dobbiamo dare una possibilità, anche minima, di farcela a tutti”. Il rapporto di Senna con la ricchezza si nota da un’altra frase, un po’ più amara: “I soldi sono una cosa strana. Chi non ce li ha farebbe di tutto per averli mentre chi li ha è pieno di problemi”.

Questo era solo un lato del suo approccio alla vita, quello che lo spingeva ad essere molto severo con se stesso. Una delle sue massime preferite diceva che “non importa chi sei, non importa se sei ricco o povero, devi sempre dimostrare grande forza e determinazione”. Se c’era una cosa che Ayrton amava era la competenza, un obiettivo che ha inseguito per tutta la vita: “Non ho idoli. Ammiro solo il lavoro, la dedizione e la competenza”. Lavorare duramente, allenarsi in maniera massacrante, fare giri su giri per capire come limare un centesimo di secondo sul giro era parte del contratto sociale con i suoi tifosi. La popolarità, per lui, era solo un mezzo: “Mostra quanto puoi toccare le persone. Anche se provi a dargli il massimo, non è niente rispetto all’affetto che hanno per te, a come puoi farli sognare”. Una immensa responsabilità che Ayrton ha sempre preso molto sul serio.

Vincere è tutto

Ayrton era uno dei rari individui che riuscivano a combinare un talento quasi sovrannaturale con una determinazione assoluta a raggiungere i propri obiettivi. Come Michael Jordan o Kobe Bryant, niente sembrava impossibile per lui, specialmente in pista. Senna usava dire che “con la tua forza mentale, la tua determinazione, il tuo istinto e la tua esperienza puoi volare altissimo”. L’altro lato della medaglia, però, era l’obbligo che sentiva nei suoi confronti di dare sempre il massimo e puntare sempre e comunque al massimo. Specialmente nel confronto con il ragioniere Prost, uno che ragionava sempre in termini di campionati e dosava le energie, Senna era un assolutista della vittoria. Quando diceva che “il secondo è il primo dei perdenti”, molti storcevano il naso ma non c’era niente di artefatto in queste sue parole: la pensava proprio così.

Specialmente quando non hai a disposizione la macchina migliore del lotto, è fin troppo facile auto-assolversi da ogni colpa e celebrare magari un buon posto in griglia come se fosse un grande trionfo. Senna non la pensava affatto così. “O dai il massimo e ti pensi come un pilota professionista che vuol vincere sempre o arrivi secondo, terzo o quinto. Io non sono fatto per arrivare terzo, quarto o quinto. Io corro sempre per vincere. Pensarla così era il modo migliore per pretendere maggiore attenzione, concentrazione e precisione in ogni momento della sua vita. All’esterno sembrava arroganza ma, in realtà, questo non poteva che rendergli l’esistenza più complicata. “Una volta che prendi posto su una macchina da corsa, devi correre per vincere. Un secondo e un terzo posto non sono abbastanza”. Parole semplici, lapidarie, che riassumono al meglio l’approccio di Ayrton Senna alle corse e alla vita.

Lavorare duro, sempre

Negli anni più belli, quelli quando dominava il circus della Formula 1, di Senna si vedeva solo il lato più scintillante, i trionfi in pista, magari qualche paparazzata mentre faceva sci d’acqua o si rilassava sul suo yacht. Quello che, invece, non era altrettanto pubblicizzato era il lavoro enorme che Ayrton metteva sia nei mesi di vacanza che nelle pause tra un gran premio e l’altro. Senna era maniacale non solo nell’attenzione ai dettagli in pista ma anche nella preparazione fisica, cosa nella quale è arrivato prima di tanti altri colleghi. Questo era un riflesso della sua concezione molto calvinista della vita, incapsulata nella massima “i deboli non vanno da nessuna parte”. Ayrton si impegnava senza sosta, giorno dopo giorno, convinto che i frutti sarebbero arrivati prima o poi. “Tutto quel che ho ottenuto dalla vita l’ho avuto attraverso la dedizione e un desiderio tremendo di raggiungere i miei obiettivi. Alla base c’è un gran desiderio di vincere nella vita, non solo in pista”.

Senna era in qualche modo capace di gettarsi le delusioni alle spalle e ripartire con entusiasmo anche dopo le sconfitte più dure: quando diceva che “il passato offre solo dati. Io vedo solo il futuro” c’era chi lo prendeva in giro ma era completamente onesto. Ayrton non riusciva a fare le cose a metà, convinto che “o fai qualcosa molto bene o non lo fai per niente”. Una volta scelto di misurarsi sul terreno delle corse, si era impegnato anima e corpo, dimenticando ogni dubbio o perplessità. “L’unico modo di affrontare le corse è di impegnarti al punto da ignorare ogni compromesso. Devi dare assolutamente tutto quello che hai, senza riserve”. Le mezze misure, specialmente in uno sport spietato come il motorismo, non possono esistere: “quando si parla di performance, dedizione, impegno, sforzo, non ci sono vie di mezzo. Credo che se sei in una competizione come le corse, devi per forza dare il massimo o gettare la spugna”. Uno stile di vita che Ayrton rispettò fino alla fine.

Il lato oscuro di Senna

Nonostante sembrasse sempre troppo serio, troppo aggressivo, lontano dall’immagine sorridente di tanti altri campioni della sua epoca, pochi avevano occasione di conoscere il lato oscuro di Ayrton Senna. Persona estremamente riservata, era davvero complicato capire come ragionasse, quali fossero le cose che lo impaurivano davvero. In pista sembrava fregarsene dei rischi, disposto ad andare sempre oltre il limite ma nella vita reale era ben conscio di quanto fosse pericoloso quello che faceva. “Solo perché credo in Dio, perché ho fede in Lui, questo non vuol dire che sia immune dai rischi. Non penso di essere immortale”. Se il cammino del pilota paulista sembra una marcia trionfale, Ayrton seppe anche imparare dai momenti difficili, quelli che lo hanno messo alla prova sul serio: “Credo che iniziamo a capire la nostra vera personalità solo quando passiamo momenti davvero difficili”.

Senna era capace di vivere un rapporto conflittuale con il suo stesso successo: se da un lato era ben lieto di esser riuscito a diventare il migliore di tutti, dall’altro sapeva bene quanto questo potesse essere pericoloso. “Cose del genere fanno venire a galla quanto sei fragile, proprio nel momento nel quale stai facendo qualcosa impossibile per gli altri. Appena sei visto come il migliore, il più veloce, uno che è imbattibile, diventi incredibilmente fragile”. La cosa più sorprendente è che, nonostante il suo approccio senza compromessi, Senna fosse guidato dalle emozioni: una volta disse che “cerchiamo tutti le emozioni. La cosa importante è capire il modo migliore di viverle”. Il rapporto più viscerale era quello con la Vittoria, la sfuggente dea che ogni atleta insegue: “non capirete mai le sensazioni di un pilota quando vince. Il casco nasconde sentimenti che sono impossibili da capire”. In fondo, però, Senna era spinto da quello che l’aveva convinto a salire su un kart da bambino: “se una persona non ha più sogni, non ha ragione di vivere.

Errare non è umano

Forse il modo migliore di ricordare Ayrton Senna da Silva è capire quale fosse il suo vero rapporto con uno sport spietato come pochi, dove un solo errore può costarti la vita. Nessuno forse riuscirà mai a capire cosa sia successo davvero in quel maledetto giorno di 30 anni fa, se il piantone dello sterzo si sia rotto o meno. Una cosa è certa: la lotta più grande di Ayrton fu quella tra l’istinto e la necessità di ridurre al minimo gli errori. Vista la sua determinazione te lo immagineresti come un pilota tutto cervello ma le cose stavano in maniera ben diversa. Alle volte, Senna entrava in una specie di trance, riuscendo ad andare oltre: raccontando uno dei suoi incredibili giri di qualifica, ebbe a dire: “Mi resi conto di colpo che non stavo più guidando l’auto in maniera conscia. Ero guidato da una specie di istinto, come se fossi in un’altra dimensione”. Dopo uno storico giro a Montecarlo confessò che si era sentito “come in un tunnel. Non solo quello fisico sotto l’albergo ma come se l’intero circuito fosse un tunnel. Andavo e basta, sempre di più, ero ben oltre il limite ma riuscivo ad andare ancora più veloce”.

La cosa non può che impaurire, considerato appunto che un errore nella Formula 1 dell’era del turbo, con vetture strapotenti e con ben poche misure di sicurezza poteva costarti la vita. Per Senna, errare non era umano ma allo stesso tempo poteva essere utile. “Spesso succede che si impara di più dagli errori. La cosa importante è riuscire a trarne il massimo e migliorare ancora”. Se da un lato credeva che fosse fondamentale “la capacità di concentrarsi al massimo, così da essere in grado di tirare fuori tutto il possibile”, dall’altro era conscio che “il mio errore più grande è quello che non ho ancora fatto. Chi era, quindi, Ayrton Senna? Un campione assoluto, un essere umano timido ma feroce, fragile ma granitico, una contraddizione vivente. Anche lui aveva la tentazione di fermarsi, prima che fosse troppo tardi. Una volta ammise che “ci sono momenti nei quali ti chiedi quanto potrai continuare a correre, visto che ci sono aspetti di questa vita che non sono piacevoli”. La risposta che si diede subito dopo fu lapidaria: “il problema è che amo troppo vincere”.

Ayrton riuscì in un’impresa non comune: rimanere fedele al suo principio più importante, “essere quello che sei”. Ci riuscì dal primo all’ultimo secondo, il che spiega perché ci manchi così tanto. Come si lesse a San Paolo tra la folla oceanica che lo accolse in patria, la morte ti ha raggiunto ma non è riuscita a sorpassarti.

Adeus Ayrton.

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