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I sette motivi per non sentirsi obbligati a dichiararsi antifascisti

Il Fascismo è un riferimento storico a un periodo del passato, mentre l'antifascismo è divenuto un riferimento politico a un periodo del presente

I sette motivi per non sentirsi obbligati a dichiararsi antifascisti

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1. Il Fascismo è un riferimento storico a un periodo del passato, mentre l'antifascismo è divenuto un riferimento politico a un periodo del presente. Quindi dirsi fascisti, oggi, significherebbe ammettere di vivere fuori dal tempo e dalla realtà, mentre dirsi antifascisti equivale a militare in determinati mondi (partiti, associazioni, giornali, centri sociali o culturali) coi quali un cittadino ha diritto di non volersi confondere o di non essere confuso.

2. La Costituzione vieta la riorganizzazione del Partito Fascista, permette a tutti di manifestare il proprio pensiero e condanna ogni forma di violenza: ma la stessa Costituzione non fa alcun riferimento all'antifascismo come forma permanente di attivismo, soprattutto consistente nel verificare il tasso di antifascismo altrui a scopo denigratorio.

3. Ne consegue che «antifascismo», oggi, è un termine momentaneamente inutilizzabile perché sequestrato da chi ne fa una strumentalizzazione perpetua. Per azzardare un parallelo: la Costituzione sancisce anche che uomini e donne hanno pari diritti, ma questo non equivale a un dovere di dichiararsi «antisessisti» o «femministi» che sono espressioni sbocciate in periodi successivi e, come la militanza antifascista, politicamente connotate.

4. Il Fascismo non solo appartiene al passato e non esiste più, ma un suo ritorno anche in forma evoluta difetta di prospettiva storica e di principio di realtà. Per dirla con Massimo Cacciari. «Antifascismo è diventato una parola vuota da quando non è più declinata o incarnata in dei progetti. È come dire che bisogna essere sempre onesti, o che la mamma è buona. Sono concetti generici Il mondo contemporaneo non presenta blocchi sociali o interessi di classe che portino a totalitarismi fascisti come sono stati quelli del Novecento».

5. L'antifascismo inteso come simbolica presa di distanza da un passato pur lontano e irripetibile, politicamente, oggi appare come un'ammissione di inferiorità morale o richiesta di perpetua umiliazione pretesa da chi, impalcandosi a giudice del bene e del male, ha peraltro moltissimo da farsi perdonare (in un passato assai più recente) per politiche interne ed estere nei confronti di forze e nazioni che tenevano i loro missili puntati contro l'Italia.

6. L'eterna abiura pretesa dalla militanza antifascista (spesso rimessa a cortei d'ogni colore, o a studenti che il Fascismo non l'hanno neppure mai studiato) appare peraltro come insaziabile o di corta memoria: negli attuali Parlamento e Governo siede ancora chi condivise la cosiddetta svolta di Fiuggi (pensata da Domenico Fisichella nel 1992, conclusa da Gianfranco Fini nel 1994 con la fondazione di Alleanza nazionale) laddove l'espressione «antifascismo» apparve chiaramente in scritti e dichiarazioni.

Il segretario di An esaltò «l'antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato», spiegò che le leggi razziali furono «un'infamia», che «Salò fu una pagina vergognosa», addirittura che «il fascismo fu il male assoluto» e fece persino dei pellegrinaggi alle Fosse Ardeatine, alla Risiera di San Sabba e al museo dell'Olocausto: non bastò quello, null'altro basterebbe oggi. E comunque una giovanissima Giorgia Meloni, alla svolta di Fiuggi, era presente.

7.

In termini strettamente politici, a meno di voler considerare l'intero corpo elettorale come una somma di microcefali, può dirsi che gli italiani abbiano storicizzato il fascismo assai più degli antifascisti i quali con quest'espressione hanno sostituito proposte, decenti opposizioni e buoni esiti elettorali.

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