Cronache

In cima all'Everest 23 volte. Il super sherpa batte se stesso

Kami Rita termina l'ultima scalata della cima più alta del mondo. È il suo 35° ottomila: «È soltanto lavoro»

In cima all'Everest  23 volte. Il super sherpa batte se stesso

G li sherpa sono i mediani delle scalate. Fanno il lavoro sporco ma alla fine la gloria va tutta agli alpinisti. Poi però capita anche a loro di «vincere casomai i mondiali». Per dire: uno di loro, Kami Rita e l'altro giorno ha raggiunto per la ventitreesima volta la vetta dell'Everest, che con i suoi 8848 metri è la montagna più alta del mondo. E nessuno lo aveva mai fatto, né oggi né mai. Lui, Kami, la chiama Sagarmatha quella madre assetata di coraggio, di sangue e di soldi che loro fino a qualche decennio fa mai si sarebbero sognati di scalare, anche se vivono al di qua e al di là della sua imponenza.

Sherpa, pochi lo sanno, non è un lavoro ma un popolo. Un gruppo etnico dell'Himalaya nepalese che conta circa 150mila individui e parla una sua lingua quasi solo orale. Il fatto di vivere ad alta quota - la capitale Namche Bazar si trova a 3440 metri, altitudine alla quale uno qualsiasi di noi già boccheggerebbe - ha influito sul loro fisico, attivando con i secoli trasformazioni evolutive che ne fanno delle autentiche macchine da scalata: i loro polmoni sono particolarmente capienti, non vanno mai in iperventilazione e soprattutto hanno un'alta concentrazione di emoglobina nel sangue, ciò che li rende idonei a vivere ad altitudini in cui c'è poco ossigeno rispetto al livello del mare, a occhio il 30 per cento in meno. Non solo: come gli uomini degli altipiani africani nella corsa, fanno dell'economia dei movimenti una delle loro caratteristiche, ciò che li aiuta a risparmiare energie massimizzando i vantaggi della loro superiorità biologica.

Gli sherpa un tempo erano allevatori, contadini e solo occasionalmente portatori, visto che sono piccoli e minuti ma dotati di una forza e di una resistenza di ferro. Poi lo sviluppo del turismo di alta quota, che fece boom dopo che il 29 maggio 1953 il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay conquistarono per la prima volta la vetta dell'Everest. Oggi da tutto il mondo arrivano in questa parte orientale del Nepal per raggiungere la vetta dell'Everest o delle altre montagne himalaiane. E tutti questi turisti di altissima quota hanno bisogno di chi li guidi e li aiuti, di chi ne metta in sicurezza il percorso.

Kami Rita è al momento il Cristiano Ronaldo delle scalate. Ha «fatto» 35 ottomila e ha raggiunto almeno una volta gli 8848 metri in quasi ciascuno degli anni che sono trascorsi dalla sua prima spedizione sul «Sagarmatha», che fu il 1994. Negli ultimi anni ha «saltato» soltanto il 2015, anno del terribile terremoto che colpì il Nepal. Nel 2017 condivideva il primato di scalate ultimate sull'Everest con i suoi colleghi Apa Sherpa e Phurba Tashi. Poi li ha staccati e oggi guarda tutti - è proprio il caso di dire - dall'alto in basso.

Kami ha il viso che sembra fatto di cuoio e un sorriso dai denti bianchissimi che assomigliano a lame di neve ghiacciata. È umile e servizievole come richiede il suo mestiere («in fondo è solo lavoro», dice schermendosi), ma ogni tanto mostra un po' di frustrazione per il fatto che l'opera sua e dei suoi «connazionali» non viene mai riconosciuta, malgrado i rischi elevatissimi di un tale servizio. Un anno fa, quando con la ventiduesima scalata aveva già battuto se stesso, si era issato a «sindacalista» degli sherpa, affidando a un quotidiano nepalese la seguente doléance: «Siamo pagati per il nostro lavoro, ma i soldi non sono tutto, ci aspettiamo anche del riconoscimento. Gli alpinisti ottengono nomea e fama. Che dire di quegli sherpa che lavorano per loro mettendo in serio pericolo le loro stesse vite?». Va detto che gli sherpa più bravi riescono a mettersi nello zaino belle cifre a ogni spedizione, assommando la tariffa giornaliera alle «mance» degli stranieri al termine della spedizione, soprattutto se baciata dal successo e dalla sicurezza.

Ciò fa di loro dei benestanti in patria, anche se per le cifre per cui rischiano la vita ogni minuto - si parla di al massimo qualche migliaio di euro per spedizione - noi non metteremmo a repentaglio nemmeno la prozia Pina.

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