Cultura e Spettacoli

"Sorpresa: a sessant'anni faccio ridere al Teatro Greco"

L'attore sarà protagonista della commedia «I cavalieri» al Festival di Siracusa: «Un'opera moderna sul potere»

"Sorpresa: a sessant'anni faccio ridere al Teatro Greco"

Al physique du role cioè all'evidente affinità tra l'aspetto dell'attore e quello del personaggio - dice di non aver mai pensato. Ma (confessa poi) «Romeo non avrei mai potuto interpretarlo». Insomma: è proprio quella sua faccia anticonvenzionale, quella sua voce fonda ed intensa, oltreché il brillante talento, ad aver dato a Francesco Pannofino la popolarità. Già corposo Nero Wolfe su Raiuno, già ruspante Ferretti nella serie-culto Boris, sarà presto il popolaresco «salsicciaio» protagonista de I cavalieri, rara commedia di Aristofane, per la prima volta (dal 29 giugno) in scena al Festival del Teatro Greco di Siracusa. «E sarà un esordio anche per me racconta -. Non ho mai recitato a Siracusa. Debuttare sessant'anni? Mica male».

Com'è nato il progetto?

«Un giorno mi telefona Giampiero Solari, il drammaturgo e regista degli show televisivi di Dalla, Morandi, Celentano e Fiorello. Ti andrebbe di fare questo salsicciaio? E' un tipo greve, ma divertente. Ho capito subito che si trattava di una cosa interessante: per la rarità della commedia, per i suoi contenuti».

Ovvero?

«Scritta 2500 anni fa I cavalieri parla di noi, della nostra epoca. Perché Aristofane ironizza sul rapporto oscuro tra gli ignoranti e il potere. Cioè tra i politici non solo cafoni, ma fieri di esserlo. E il modo in cui sfruttano il facile populismo, la demagogia più banale, per imbrogliare chi li sostiene».

Ancora un volta il destino del physique du role, insomma?

«Non mi sono mai preoccupato del mio aspetto. Anche se so benissimo che in un attore conta e che, certo, Romeo non me lo faranno mai fare. La verità? Io non ho mai nemmeno desiderato farlo».

Agli inizi lei è diventato famoso per la sua voce. E il doppiaggio, una volta mestiere oscuro, oggi ha i suoi premi, i suoi fan, i suoi cultori. Esserne un divo la gratifica?

«Da ragazzino non ne sapevo niente: pensavo che Jean Gabin parlasse italiano. Poi sono finito incatenato al leggìo: ore su ore, al buio, sconosciuto ai più. Un mestiere che odiavo. Però intanto andavo a scuola dai più grandi del mondo. Perché loro non lo sanno, ma io ho rubato il mestiere ai miei migliori maestri inconsapevoli: George Clooney, Daniel Day Lewis, Denzel Washington, Tom Hanks. E oggi, che lavoro più come attore che come doppiatore, amo moltissimo essere la loro voce. Ci ho vinto anche il più importante premio del settore: Il Leggio d'Oro».

Poi è arrivato il teatro.

«Il teatro è povero, faticoso, impopolare. E allora perché lo fai?, potrebbero chiedermi. Perché mi fa felice. Anche se il pubblico ti aspetta ogni sera al varco. Gassman diceva che, sotto sotto, il pubblico spera che tu muoia in scena. Ma io recitando la saga dei I suoceri albanesi di Gianni Clementi, e sentendo il pubblico ridere come un pazzo, sera dopo sera, mi sono sorpreso a pensare: far ridere gli altri. Ecco la felicità».

Poi è arrivato il clamoroso successo di Boris.

«Una fortuna. Uno di quei colpi che il destino ti riserva raramente, ma che quasi ti cambiano la vita, soprattutto perché sono inaspettati. In pochi ci credevano. E' roba da addetti ai lavori, scuotevano la testa. Ma io capii subito che quel regista sfigato, che ha mollato tutte le sue velleità intellettuali e si è ridotto a dirigere una fiction infame, avrebbe colpito nel segno. Nel 2011 ne abbiamo tratto anche un film. E otto anni dopo l'ultima puntata della serie, ancora tutti lì a chiederci Lo rifarete, prima o poi?».

E lo rifarete, prima o poi?

«Ah: non mi faccia dire nulla. Se rispondo di no mi rimproverano perché porta sfortuna; se rispondo di si mi sgridano perché su queste cose non c'è mai la sicurezza. Meglio tacere. E incrociare le dita».

Quarant'anni fa in via Fani, al momento del rapimento di Aldo Moro, c'era anche lei.

«Avevo 19 anni. Ero alla fermata dell'autobus, a venti metri di distanza dall'incrocio dell'agguato. Stavo andando all'università, dove avevo lezione di algebra. Erano le nove e cinque del mattino. Leggevo sul giornale un articolo su Dino Zoff. Vidi tutto. Anzi: fossi arrivato 15 secondi dopo sarei finito in mezzo alla sparatoria. Un ricordo che non si cancella.

E che mi ha spinto a scriverci su una canzone: Sequestro di stato».

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