Crisi siriana

Nel quartiere-inferno dell'attacco chimico: "Qui i gas sono inutili"

Un ufficiale del regime: "Se li usassimo per snidare i ribelli, moriremmo anche noi"

Nel quartiere-inferno dell'attacco chimico: "Qui i gas sono inutili"

Jobar (Siria) - I carretti stracolmi di mele e pere si infilano tra camion taxi e pullman. Le cassette ondeggiano e traballano nell'ingorgo di lamiere roventi incolonnate nella rotonda. Dal tetto del palazzo del Commercio un cannone fa sentire la sua voce. Uno, due, tre colpi. Le due donne in nero non alzano neppure gli occhi. Una bionda cristiana scuote la testa, barcolla sui tacchi e accelera il passo. Al posto di blocco di Zablatani Street un soldato appoggiato ai sacchetti di sabbia allineati tra le vetrate oscurate dei palazzi ministeriali e il caos dell'ortomercato verifica targhe e permessi: «Sahafi? La, la, -giornalisti no no - qui passano solo i residenti». Poi un ufficiale legge meglio, sposta il sottoposto e apre i cancelli della guerra con un cenno del capo. La sbarra si alza. La caotica normalità quotidiana del mercato, del traffico, dei passanti in lotta con l'orologio si dissolve in un deserto di minaccia e paura. La strada è una linea d'asfalto martoriata dalle granate e dai colpi di mortaio, un rettilineo per l'inferno rinchiuso tra le facciate dei palazzi ricamate dalle schegge delle granate e dai colpi di mitraglia. Shami tiene il piede sull'acceleratore e la testa abbassata sul volante mentre ripete quell'unico monosillabo «sniper, sniper», «cecchini, cecchini». Lui, il cecchino, si materializza ottocento metri più avanti. Non appena l'auto infila l'arcata della circonvallazione sud e punta verso gli scheletri dei palazzoni di Jobar, tira il grilletto. Mentre Shadi tenta di seguire le indicazioni dei soldati che gli indicano una traiettoria più sicura, due colpi rimbalzano davanti a noi. Un terzo alza uno sbuffo bianco a lato dell'asfalto.

«Benvenuti all'inferno», Abu Abib un ufficiale con la scritta «operazioni speciali» sulla mimetica ci accoglie ghignando nel suo nido protetto da palizzate di cemento e fortificazioni. È qui da sei mesi, conosce ogni angolo, ogni insidia, ogni trappola di questa linea del fronte. Siamo alle porte del sobborgo commerciale di Jobar, est di Damasco, ad appena ottocento metri dal centro. Qui case e palazzi non sono manco periferia. Eppure già qui immagini e panorami fanno pensare a una Stalingrado mediorientale. Per Abi Abib parole e discorsi contano poco. «I ribelli? Le armi chimiche? Le stragi di civili? Venite con me e vedrete». Con lui alla guida scortati da un pick up su cui troneggia una mitragliatrice 12,7 russa c'infiliamo nei cunicoli scavati tra terrapieni e case sventrate. Attorno non c'è un anima, solo l'immagine tetra di ogni guerra. Pali e lampioni abbattuti, case sventrate dove i muri caduti tra appartamenti limitrofi consentono di muoversi al riparo dai cecchini e dagli occhi del nemico. Con Abu Abib davanti e i suoi uomini dietro avanziamo a piedi per altri cinquecento metri. Poi sbuchiamo in uno slargo dove il relitto di un autobus blocca la strade verso il sud di Jobar. «Fino a due settimane fa qua sventolava la bandiera nera di Al Nusra e di Al Qaida. Guarda dietro l'autobus... c'è un tunnel largo tre metri, lo usavano per spostarsi avanti e indietro dal villaggio di Ain Therma, trecento metri più in là. Il segno distintivo di Al Qaida lo trovi pochi passi più in là. È una trappola esplosiva simile a quelle usate per far saltare i nostri militari in Afghanistan. «I miei soldati - spiega Abu Abib - le hanno trovate ovunque, qui attorno è infestato. Assieme ai cecchini e ai kamikaze sono la loro arma preferita».

Abu Abib non si ferma. «Ora ti porto fino al lato sud di Jobar, ormai li abbiamo spinti indietro fin là. In due mesi abbiamo completamente ribaltato la situazione sul terreno». Ora però avanzare è un rischio continuo. A ogni crocevia i colpi dei cecchini bersagliano la nostra fila. Uno sfiora il comandante e i suoi uomini alla testa del gruppo. Lui fa segno di fermarsi, indica un'abitazione diroccata. C'infiliamo tra i ganci di un ex frigo di macelleria trasformato in un posto d'osservazione. Abu Abib osserva l'area da cui sono partiti i colpi, parla alla radio. Cinque minuti dopo, un colpo di mortaio s'abbatte sulle postazioni nemiche. Avanziamo ancora. Ora siamo sulla primissima linea. Nell'aria c'è lezzo di cadavere. Una trincea di terra smossa si congiunge a un rudere sforacchiato dai colpi, collegato a sua volta alle cantine di altre macerie. Scivoliamo in quell'antro, strisciamo verso alcune feritoie. Abu Abib tende il dito verso un palazzone sventrato. «Sono là dentro, è la loro ultima tana». Saranno duecento metri anche meno. Abu Abib ti guarda e sorride. «Ora hai capito come combattiamo qui? Voi giornalisti e le vostre balle delle armi chimiche mi fate ridere. Pensi che se usassi i gas per snidarli da quei palazzi me la caverei? Moriremmo noi e loro. Ma noi non vogliamo morire, vogliamo solo buttarli fuori di lì...e per farlo ci bastano le armi che usiamo ogni giorno. Ci bastano e ci avanzano. Fino a due mesi fa avevamo l'ordine di non attaccare, di creare una barriera per difendere Damasco e impedir loro di minacciare il centro. Ma poi gli ordini sono cambiati e in poche settimane abbiamo riconquistato gran parte di Jobar. Se avessimo voluto usare le armi chimiche lo avremmo fatto all'inizio dell'offensiva. La verità è che qui le armi chimiche non servono a nulla.

Qui bastano un po' di coraggio e i nostri kalashnikov».

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