Cronaca locale

Mussolini arrivò socialista, Milano lo trasformò in Duce

I luoghi della città che conservano tracce del regime nato in piazza San Sepolcro il 23 marzo del 1919

Mussolini arrivò socialista, Milano lo trasformò in Duce

Non lo conoscevano in molti quando arrivò a Milano. Ed era solo. A Forlì aveva lasciato la fidanzata Rachele che lo avrebbe raggiunto di lì a qualche mese. Nel dicembre 1912 Benito Amilcare Mussolini era un semplice giornalista che aveva preso casa in via Castel Morrone, dove sembra che avesse per vicini di casa un uxoricida, un aspirante suicida, una medium e uno sconosciuto rovinato dal gioco. Ma soprattutto, era socialista. Doveva dirigere l'Avanti! in crisi asfittica di vendite e, secondo il partito, quella penna veemente e baldanzosa poteva fare al caso giusto. In effetti sollevò i sopiti entusiasmi dei compagni. Il «Paganini della carta stampata» il miracolo lo fece eccome e il foglio rosso che boccheggiava intorno alle 12mila copie si ritrovò intorno alle 40mila nel 1913 e oltre le 70mila nei primi mesi del 1914. Missione compiuta.

In via San Damiano, dove il giornale aveva sede, furono sorrisi compiaciuti. Quel direttore dai baffetti fin de siécle e lo sguardo battagliero aveva risvegliato i delusi e in corso Venezia 95 dove abitava Margherita Sarfatti era di casa. A far saltare il banco si mise la guerra e il dibattito interventista che divise i socialisti. Mussolini, esponente di spicco dei massimalisti fu inizialmente contrario, in linea con l'Internazionale. Non era una rivoluzione, ma il fermento ribolliva e all'Arena il 10 giugno - data profetica - sotto il palco erano a migliaia. Sciopero. Una giornata per protestare contro i fatti di Ancona. Le forze dell'ordine avevano ucciso tre manifestanti. Il direttore cavalcò la tigre. Grazie alla crescita del quotidiano, molti milanesi erano lì per lui.

Giorni convulsi fatti di urla e parole. Tesi e antitesi. I socialisti si interrogavano. Salvemini e Bissolati si chiedevano con chi eventualmente convenisse allearsi e Mussolini ruppe gli indugi. In un editoriale del 18 ottobre - «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante» - ammonì che il partito rischiava di entrare in un vicolo cieco. L'isolamento. Ma a restare isolato fu lui. Immediata la reazione. Tra i riformisti spiccava Giacomo Matteotti, uno che non gliela aveva perdonata già quando il direttore fece votare una mozione sull'incompatibilità della tessera massonica con quella socialista. In quarantott'ore Mussolini fu costretto alle dimissioni e il 20 ottobre uscì per l'ultima volta dalla redazione di via San Damiano. Eppur piaceva.

Filippo Naldi, un faccendiere che dirigeva il Carlino, aveva manovrato nell'ombra per portare Mussolini tra gli interventisti. Fu lui, in quell'ottobre di difficoltà, a procurargli un gruppo di industriali disposti a finanziare Il popolo d'Italia. Vagiti sottovoce. Nella redazione di poche stanze in via Paolo da Cannobbio 37, nel quartiere che ancora si chiamava Bottonuto, il foglio uscì a tempo di record. Il primo numero è datato 15 novembre 1914. Due settimane dopo, Benito Mussolini veniva espulso ufficialmente dal Psi.

Finì a colpi di sciabola. Con Claudio Treves gli insulti si sprecarono e i contendenti decisero di lavarli nel sangue sfidandosi a duello a Niguarda. Dopo otto assalti, in cui i due si ferirono ripetutamente, i padrini furono convinti alla resa dai medici. Non così i rivali. Tra i due fu il romagnolo a riportare meno danni. E nel '15 partì per il fronte dopo l'iniziale bocciatura degli uffici di leva. Il bersagliere Mussolini, partito come soldato semplice e congedato da caporal maggiore, si ripresentò al lavoro in via Paolo da Cannobbio nel 1917 dopo le ferite di Treves e quelle sul Carso.

Ci volle un anno però a convincerlo a cambiare la dicitura «quotidiano socialista» in «quotidiano dei combattenti e dei produttori» che accompagnava la nuova testata. Correva l'agosto 1918. La svolta era chiara. L'esperienza della guerra aveva segnato il direttore che vedeva negli ex commilitoni la classe dirigente di domani e rispolverò quella parola sei mesi dopo quando - e oggi ne scocca il secolo - fondò i Fasci italiani di combattimento il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro.

Serrarono i ranghi una cinquantina di quelli che furono poi chiamati sansepolcristi e dopo la nascita del movimento si riunirono nel «covo» del Popolo. Appartenervi dava prestigio e furono in molti a non sottrarsi. La fila andarono ingrossandosi e nel '20 al teatro Lirico si tenne il secondo congresso dei Fasci. La svolta a destra era compiuta e nel '21 Mussolini accettò la proposta di Giolitti di far parte dei blocchi nazionali antisocialisti. L'anno dopo, in un altro ottobre, iniziò la marcia verso il potere. Era il '22. E a Milano il Duce legò il suo nome a molti altri indirizzi perché il neonato Pnf aveva trovato casa in via San Marco per poi traslocare nel '23 nel nuovo edificio sorto in corso Venezia 43 e inaugurato il 28 ottobre, anniversario della Marcia. Anche il Popolo si trasferiva. Andò in un palazzo, oggi scomparso, all'angolo tra via Lovanio e via Moscova mentre in tutta la città si moltiplicavano le «case del Fascio» contraddistinte da un torre alta che richiamasse i dispersi ideologici in cerca di un tetto. La più famosa fu quella di via Nirone 15, progettata dall'architetto Paolo Mezzanotte, lo stesso della Borsa. Con la caduta del regime, culminata nella macabra esposizione di piazzale Loreto, nell'area del benzinaio oggi sostituito da McDonald's, la storia giocò con il fascismo e il destino. E via Nirone, rimasta disabitata, diventò la sede della Dc.

Fino a Tangentopoli.

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