"Papà Peppino e zio Eduardo li riunisco in casa Cupiello"

L’attore in scena a Roma idealmente fa rappacificare i due grandi fratelli: "Il risarcimento della mia vita"

"Papà Peppino e zio Eduardo li riunisco in casa Cupiello"

Non è solo uno spettacolo di successo. È un appuntamento del destino. Gli spettatori che in questi giorni affollano il teatro Parioli di Roma non assistono solo a Natale in casa Cupiello con Luigi De Filippo; ma anche ad una sorta di ideale riunificazione fra due mostri sacri del teatro del novecento: Eduardo e Peppino - zio e padre di Luigi - la cui clamorosa divisione artistica e umana durò quarant’anni, senza mai ricomporsi. E che ora, inaspettatamente, fino al 14 gennaio si realizza, nel nome dell’ultimo erede della celebre dinastia.

Signor De Filippo: dal 1942 i nomi di Peppino ed Eduardo sono rimasti rigorosamente, polemicamente separati. E vedere il figlio del primo che interpreta uno dei capolavori del secondo, fa un certo effetto...

«Questo spettacolo rappresenta per me un risarcimento della vita. Per una vita intera, infatti, ho tentato di rappacificare mio padre con mio zio. E talvolta ci riuscivo anche. Ma durava poco. C’era fra loro una rivalità forse inevitabile: la gelosia di apparire il migliore, la smania di dimostrarsi il più bravo. E due galli nello stesso pollaio...»

Ma oggi mi pare di rivederli finalmente affratellati. Anche se solo per interposta persona”. Come ha ottenuto i diritti di rappresentazione di un testo che alla sua famiglia è sempre stato precluso?

«Ne parlai con Luca, figlio di Eduardo, prima della sua scomparsa. Me li concesse subito, entusiasta».

Natale in casa Cupiello è il testo più amato di Eduardo. Nell’interpretarlo, lei che tentò di fare da ago della bilancia fra i due, tiene più a mente la lezione di suo padre o quella di suo zio?

«In realtà questo testo i due lo crearono assieme, fra il 1931 e il 36, nei mitici anni del loro Teatro Umoristico. L’umorismo è la parte agra della comicità. E la storia dell’infantile Luca Cupiello, che si ostina a vivere il suo Natale in un presepe che nella realtà non esiste, continua a far ridere e a commuovere. Il contributo di mio padre è evidente nel personaggio di Tommasino: il figlio bastian contrario, quello a cui “il presepe non piace”. Da parte mia, in scena li sento vivi entrambi. Anche perché l’antagonismo fra Tommasino e Luca ricalca il reale, estenuante odio et amo che c’era fra gli stessi Peppino ed Eduardo».

Per quanto incredibile appaia, suo padre dichiarava orgoglioso di non aver mai visto nessuno dei capolavori del fratello. Ma è vero che non assistette mai a Filumena Marturano, Napoli milionaria, Questi fantasmi?

«Verissimo. Vide solo Napoli milionaria, e solo perché lo spinsi io, nel 1972 a Napoli, in uno degli ennesimi tentativi di riconciliazione. Fra i due ci fu un abbraccio affettuosissimo. E poi tutto riprese come prima».

Oggi, fatta salva la grandezza dell’Eduardo autore, si riconosce però la superiorità del Peppino comico.

«Credo che mio padre sia stato il più grande attore comico del 900 italiano. Aveva una vena di comicità pura che Eduardo non possedeva. Per questo, dal punto di vista artistico, il divorzio non li danneggiò: al contrario. Peppino divenne un magistrale interprete di Plauto, Machiavelli, Molière, Goldoni. Ed Eduardo potè creare i suoi amari scenari, facendo di Napoli la ribalta della commedia umana universale».

Dica la verità: magari di nascosto, ma lei agli spettacoli di Eduardo ci andava?

«Ma certo! E mio padre lo sapeva. Assistevo addirittura alle prove; e ricordo perfettamente le intenzioni di regia con cui mio zio rendeva attuale Natale in casa Cupiello quando il testo aveva già quarant’anni sulle spalle. Sono le stesse che lo fanno attuale ancora oggi, che ne ha ottanta. Perché i pregi e i difetti dell’uomo non cambiano. I suoi slanci di generosità, la sua gretta meschinità, sono sempre gli stessi».

A cosa pensa ogni sera all’alzarsi del sipario su uno spettacolo così speciale?

«Mi emoziono. E l’impressionante partecipazione del pubblico mi ripaga di tanti sacrifici, di tante fatiche. Prima e dopo la recita mi tornano in mente due insegnamenti di mio zio. All’inizio: “Il teatro è il racconto della lotta quotidiana per dare un senso alla propria esistenza”. E alla fine: “È il pubblico che ti giudica. E il pubblico non sbaglia mai. Se ti applaude, te lo sei meritato.

Se non lo fa, ben ti sta”».

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