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Quando gli angeli del fango "inventarono" la solidarietà

Cinquant'anni fa l'alluvione che oltraggiò Firenze. Giovani da tutto il mondo per salvare le opere d'arte

Quando gli angeli del fango "inventarono" la solidarietà

Domani, 4 novembre, saranno 50 anni dall'alluvione di Firenze del 1966. E che la ricorrenza càpiti a ridosso del terremoto che ha vetrioleggiato il cuore dell'Italia medievale, genera in chi ricorda quei giorni, in chi c'era, due emozioni contrapposte: da un lato il vuoto, lo spaesato dolore e il rinnovato sgomento di sapersi esposti ai capricci di una Natura maligna e indifferente. Dall'altro la consapevolezza, raggiunta in quei giorni, quando tutto nella città invasa dall'Arno sembrava perduto, che non saremmo mai più stati soli.

Vennero da tutta l'Italia. E man mano che la notizia si spargeva, con i rudimentali mezzi d'informazione di allora, quando non solo il web era di là da venire, ma anche radio e tv «pensavano» in bianco e nero, cominciarono a calare dall'Europa intera. E perfino dall'America.

Li chiamarono «Angeli del Fango», e tali dovettero davvero apparire a una popolazione in ginocchio quei plotoni di giovani e di giovanissimi la generazione venuta su coi Beatles - che non avevano esitato a mettersi in marcia dalla Sicilia, dal Piemonte, dalla Germania, dalla Francia. Una muta gara di solidarietà che percorse l'Europa come un tam tam di cui non si aveva memoria, prima di allora. Li mosse il pensiero di salvare un bene comune, i capolavori dell'arte pittorica e libraria sentiti come la casa, la memoria di tutti-aggrediti dall'acqua e dalla melma. La molla fu quella. Salvare Firenze per salvare se stessi, noi stessi. Recuperando, salvandoli dal fango, le opere d'arte, i dipinti, le statue, i libri antichi, i manufatti, patrimoni dell'umanità che altrimenti sarebbero andati perduti. Molti di quegli «Angeli» non avevano neppure vent'anni. Da Roma, confusi fra gli altri, giunsero due tipi che un bel po' di anni dopo sarebbero diventati famosi: Antonello Venditti e Francesco De Gregori. «Arrivammo in una città in bianco e nero», ha ricordato Venditti. «Molti avevano trovato ricovero per la notte alla stazione. Era un grande accampamento, le ferrovie avevano messo a disposizione le carrozze e gran parte dei ragazzi stavano lì».

Molti di quei giovani domani torneranno a Firenze, e avranno i capelli bianchi del presidente Mattarella, che presenzierà alla ricollocazione del restauro dell'Ultima cena del Vasari in Santa Croce. Il pensiero andrà a quelle giornate del novembre 1966. Ma nei cuori, nelle parole di chi rievocherà quelle giornate sfileranno, sovrapponendosi, le immagini viste in questi giorni: le case, le chiese di Norcia e di Ussita, e quelle di Amatrice. E chissà che a qualcuno non venga voglia di dire qualcosa contro la banalizzazione delle disgrazie, la spettacolarizzazione del dramma che l'eccesso di informazioni fatalmente produce. Dove le storie di uomini e donne scalciati dalla Sorte finiscono talvolta per appiattirsi in una globalizzazione del dramma che nel bianco e nero i colori di cinquant'anni fa- sembravano più veri, più autentici.

Più drammatici.

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