Il film del weekend

“Wonder Woman 1984”, un sequel deludente perché mai incisivo

La supereroina della DC torna in un film che fa dell’ingenuità sopra le righe un vanto, esprime un femminismo maldestro e svilisce il proprio messaggio universale politicizzandolo

“Wonder Woman 1984”, un sequel deludente perché mai incisivo

Wonder Woman 1984, il sequel del cinecomic di quattro anni fa, è diretto nuovamente da Patty Jenkins e arriva finalmente anche in Italia. Senza ricostruire il percorso accidentato, causa pandemia, che ha portato il film a uscire oltreoceano per le festività natalizie dopo innumerevoli rimandi, diciamo subito che si tratta di un titolo destinato a interrompere la prolungata astinenza cinematografica dei fan del genere ma non a soddisfarli.

Il live action del 2017, origin story ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, vide la Jenkins essere la prima donna a dirigere un cinecomic (il più alto incasso di sempre per un lungometraggio diretto da una regista). Il nuovo film, che la ritrova anche sceneggiatrice insieme a Geoff Johns e Dave Callaham, sposta l’ambientazione temporale agli anni Ottanta e l’attenzione su Diane Prince, la versione in incognito dietro cui si cela la nostra regina delle amazzoni.

Wonder Woman (Gal Gadot), nell’anno del titolo, continua a sventare crimini e ad aiutare il prossimo ma, nel quotidiano, si mimetizza lavorando come archeologa al Smithsonian Museum di Washington. Fa una vita molto ritirata, essendo ancora fedele al ricordo del compianto Steve (Chris Pine), suo amato pilota scomparso decenni prima, ed è molto ammirata, soprattutto dalla nuova collega, l’impacciata Barbara Minerva (Kristen Wiig). Quando le due si imbattono in un antico artefatto con un’iscrizione che lo qualifica come pietra in grado di esaudire i desideri, non possono fare a meno di pensare a come la loro vita sarebbe migliore se l’una riavesse il defunto amore e l’altra avesse la bellezza, la sicurezza e i talenti dell’amica. Si trovano esaudite proprio mentre la pietra finisce nelle mani sbagliate, ovvero in quelle di Max Lord (Pedro Pascal), un uomo d’affari senza scrupoli al punto da diventare una minaccia per l’intera umanità.

Paradossalmente il momento più avvincente del film coincide con il prologo, la sequenza adrenalinica in cui la protagonista è ancora una bambina nella terra delle amazzoni e partecipa a una sorta di “giochi senza frontiere” alla cui conclusione è enunciato il monito che ci accompagnerà durante tutto il film: dalle scorciatoie non viene nulla di buono.

A seguire, tutto prende i colori e le fattezze (anche troppo caricaturali) dei magnifici Eighties, intesi come si sono cristallizzati nell’immaginario collettivo. Quel decennio, però, è già stato ampliamente saccheggiato di recente da così tanti film e serie tv da volgere l’effetto nostalgia in rischio di saturazione. Detto questo, è indubbio che l’epoca qui non sia una mera scelta stilistica, ma corrisponda alla volontà di risalire alle origini dell’edonismo e della sete di successo che ancora oggi caratterizzano i nostri tempi.

Il rampantismo da juppies è incarnato dal villain maschile, mentre l’ossessione per l’avvenenza fisica da quello femminile. Passare in rassegna gli stereotipi radicatisi in quegli anni, però, è cosa diversa dal vivificarli fino alla macchietta, raffigurando tutti gli uomini come potenziali predatori e suddividendo le donne tra chi brama di avere avance e chi sa loro tenere testa.

Il film suggerisce come avidità, egoismo e potere siano la triade venerata da chi fa dell’individualismo e della mitomania un vero e proprio culto, il problema è che a officiarne i riti ponga un uomo d’affari dal ciuffo cotonato, sapendo bene che l’ascesa di Trump iniziò proprio in quegli anni. Ridicolo prima ancora che inquietante, il personaggio di Max Lord rende “Wonder Woman 1984” il film più politico del DC Extended Universe ed è un peccato perché, in questo modo, si mortifica e invalida il valore universale di alcuni utili messaggi contenuti nella narrazione.

La ridondante ma maldestra sottolineatura femminista, il goffo omaggio al primo Superman, l'uso del laccio della verità come fosse la ragnatela di un altro supereroe, le parentesi leggere e quelle dal romanticismo fiacco, finiscono col frenare il film dal prendere quota. Zavorrato com’è da troppi temi e ammiccamenti assortiti in maniera non equilibrata, “Wonder Woman 1984” avanza sbilanciato e le ingenuità non si contano, anche macroscopiche: basti pensare a come si condanni l’oggettivazione del corpo femminile ma non si esiti a prestarne uno maschile (privando del libero arbitrio il suo proprietario) al redivivo Steve.

Si sottolinea l’importanza di giocare pulito, di desiderare con giudizio e di privilegiare il vantaggio collettivo a quello individuale, ma questi contenuti sempreverdi appaiono incidentali in mezzo a scene monopolizzate da citazioni e da effetti speciali mai all’altezza.

“Wonder Woman 1984”, film derivativo che non sa replicare la magia del cinema cui attinge, è un sequel poco incisivo, eccessivamente lungo (155 minuti) e che dilapida la buona impressione suscitata dal precedente (qui la recensione).

Quanto a Gal Gadot, malgrado la statuaria avvenenza richiesta dal personaggio, l’inedita armatura dorata nel finale e le sempiterne note galvanizzanti di Hans Zimmer ad accompagnarla, deve arrendersi: l’unica vera dea appare nel cameo sui titoli di coda.

Il film è disponibile per l’acquisto e il noleggio su Amazon Prime Video, Apple Tv, YouTube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV e, per il solo noleggio, su Sky Primafila e Infinity.

Commenti