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Peterson, il nano ghiacciato che ha cambiato il basket

Arrivò in Italia da sconosciuto e fece subito la fortuna di Bologna. Poi la grande epopea di Milano e il successo anche oltre la panchina

Peterson, il nano ghiacciato che ha cambiato il basket

La vita può essere davvero meravigliosa se oggi Daniel Lowell Peterson, nato nel giorno dell'ambizione il 9 gennaio 1936 ad Evanston, contea di Cook, la città delle chiese a nord di Chicago, nell'Illinois, festeggerà gli 80 anni preparando una partita di basket. La sua vita, il mondo che gli vuole ancora bene, l'Italia dei canestri che lui ha cambiato davvero. Un gigante anche se non gli è mai dispiaciuto essere chiamato nano ghiacciato.Sarà a Trento per dirigere domani una delle selezioni del nostro campionato contro Valerio Bianchini, il rivale di sempre, l'adorabile nemico con il quale ha cavalcato negli anni d'oro di questo sport. Peccato sia la settimana di un'altra purga europea, 7 squadre in campo, 5 sconfitte, le più dolorose quelle di Sassari e della Milano che è stata sua, che lo sarà per sempre, perché lui, come Rubini in passato, ha fatto la storia moderna dell'Olimpia che, non è un caso, compie 80 anni proprio in questo 2016. Sono nati quasi insieme, prima lui, figlio di un poliziotto, esigente come lui, poi le scarpette rosse che oggi non porta più nessuno.Arrivò in Italia nel 1973 dopo aver allenato a Delaware, fatto l'assistente agli Spartans del Michigan, diventando qualcuno alla guida della nazionale cilena per due anni. Lo ingaggiò la Virtus dell'avvocato Porelli che lo scelse dopo il rifiuto di americani più famosi. Quando lo vide all'aeroporto, capelli lunghi, chitarra al collo, pantaloni a zampa di elefante, gli venne quasi un colpo. Fu la sua fortuna e quella del nostro basket. Al primo anno vinse la coppa Italia chiudendo 18 anni di digiuno della Virtus. Nel 1976 riportò lo scudetto a Bologna dopo vent'anni battendo la grande Ignis che sembrava insuperabile. Due anni dopo Porelli, che credeva in un grande basket, partendo dall'idea che dovessero essere Roma e Milano al centro del sistema, fece sapere ad Adolfo Bogoncelli che poteva ingaggiarlo. Cappellari lo portò a Parigi. Accordo immediato, pur con tante perplessità per un presidente che si stava staccando dalla creatura inventata tanti anni prima. Non c'erano tanti soldi, ma quel nano ghiacciato dimostrò subito che se credi in quello che fai puoi cambiare la storia. Lo fece. Alla sua scuola partirono con la banda bassotti, arrivarono a dominare: 4 scudetti fra l'82 e l'87, 1 coppa dei Campioni in quello che a 51 anni aveva considerato il suo ultimo anno di battaglia in panchina. Lasciando al vice Casalini l'eredità per un altro titolo e ancora la coppa dei Campioni che oggi sembra così distante da questo basket. Ci ha messo tutto, tenace, risoluto, pieno di risorse, autoritario, inflessibile, ma anche sempre al limite dello stress. Per questo lasciò il regno, era stato premiato come miglior allenatore d' Europa, 2 volte dell'Italia, ma, sbagliando, pensava di aver dato tutto a chi, invece, aveva ancora tanto bisogno di lui.Scelse altri mondi, divenne telecronista per Canale 5. Ha lasciato il segno anche qui e se lo avete ascoltato mercoledì, mentre commentava per Sport Italia, il bagno dell'Emporio Armani a Berlino, vi sarete chiesti, come noi, perché lo hanno messo da parte. Lui è straordinario perché non lo vedi mai con la faccia dello sconfitto. Scrive, crea, lavora tantissimo anche oggi, l'Olimpia gli ha riservato uno spazio nella comunicazione dopo averlo richiamato in panchina nel 2011 per 18 partite, 6 sconfitte, la dura legge del tempo, che addirittura ha intenzione di risposarsi il 7 dicembre 2017 con Laura Verga, che fu già la sua compagna. Si sposarono a casa di Bob McAdoo quello stesso giorno, nel dicembre del 1997.Un cavaliere pallido ed elettrico che non ha mai smesso di cercare dentro se stesso più che negli altri, cercando antenati europei, fra le tribù indiane dell'Illinois, facendo l'attore per la pubblicità, un agente Cia per i gialli dell'ispettore Caliandro.Odiava perdere, sapeva vincere e quando non ci riusciva, nell'età dell'oro di Milano non ha conquistato tutte le finali raggiunte, era sempre al centro dello spettacolo, gli piaceva essere al centro del mirino, lo fa anche oggi.Nella recente intervista al Corriere ha scelto i quintetti della sua avventura italiana: McAdoo, D'Antoni, Premier, Driscoll, Meneghin, oh quante ore passate davanti all'ufficio di Cappelari per avere il giocatore che Varese considerava finito. Sesto uomo il Vittorio Gallinari piovra della sua zona uno-tre-uno. Questo il meglio, fra gli italiani un misto Milano-Bologna: D'Antoni, Meneghin, Premier, Bertolotti e Caglieris, pensando che Villalta è stato per tanto tempo il suo figlioccio adottivo.

Dalla casa della gloria italiana che lo ha accolto ci aspettiamo ancora altri compleanni per il mitico Dan che con il suo piffero ha incantato e ci auguriamo possa farlo ancora per tanto tempo.

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