Il ritiro da Gaza, prima concessione al nemico di unintera vita, verrà forse ricordato come lultimo colpo inferto da Ariel Sharon alla causa palestinese. Il primo a seguirlo nel gorgo innescato dalla sua scomparsa rischia di essere il presidente palestinese Abu Mazen. Fino ad ieri quelluomo solo, privo di qualsiasi controllo sui gruppi armati e sui signori della guerra in lotta per il controllo di Gaza e Cisgiordania, era almeno lunico in grado di comunicare con il leader avversario. Oggi non può rivendicare neppure quel ruolo. La lotta per la successione è di fatto già iniziata. Dal carcere dove sconta la condanna a cinque ergastoli per terrorismo comminatagli da Israele, Marwan Barghouti parla già da leader e «ordina» di non sfruttare il pretesto delleclisse di Ariel Sharon per rinviare le elezioni parlamentari del 25 gennaio prossimo.
Mentre Abbas tace desolantemente Barghouti ne assume le funzioni per ricordare a tutti i palestinesi che quel voto è una improcrastinabile «questione nazionale» slegata da quanto succede in Israele. Abbas, più abile a trattare che a comandare, tenta la carta degli accordi segreti. Approfittando della mediazione dellEmiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani, incontra Khaled Meshaal, capo di Hamas in esilio, promettendogli sei ministeri in cambio dellimpegno di Hamas a entrare in un governo ancora guidato da Fatah e fedele alle linea guida dellAutorità nazionale palestinese (Anp). Ma Hamas sembra già interpretare a modo suo quellaccordo e Mahmoud Zahar, uno dei capi del gruppo fondamentalista nella Striscia di Gaza, annuncia che lentrata di Hamas nel Parlamento segnerà la «fine delle ultime vestigia di Oslo».
Una volta al governo Hamas punterà, insomma, a impedire qualsiasi accordo con Israele imponendo la propria egemonia politica sul nuovo esecutivo palestinese. A impedirglielo non sarà sicuramente Mazen. Lunico in grado di farlo potrebbe essere Barghouti. Ma il 48enne rispettato e autorevole capo dei Tanzim è destinato a languire in cella fino a quando la dirigenza israeliana non avrà bisogno di un vero leader con cui interloquire . Nello scenario disegnato da Sharon la liberazione di Barghouti non poteva precedere la serie di ritiri unilaterali dalla Cisgiordania, indispensabili per fissare un confine definitivo e assolutamente vantaggioso per Israele. Fino a quel momento, nella visione del «grande vecchio», era meglio mantenere lAnp nel caos e operare senza interlocutori.
Ma con la scomparsa di Sharon il caos palestinese rischia di superare ogni più pessimistica previsione. Andatosene il nemico che prometteva ai palestinesi uno Stato entro la fine del 2006, le varie fazioni potrebbero decidere di abbandonare al proprio destino Mazen. Per evitare laffermazione di Hamas e del rivale Barghouti, il Presidente può ancora rinviare le elezioni raccogliendo le sollecitazioni della «vecchia guardia» di Fatah estromessa dai vertici delle liste elettorali grazie alle pressioni dei «giovani leoni» e del leader dei Tanzim. Ma il presidente dellAnp sa che con quella mossa segnerebbe la fine di ogni regola e metterebbe a repentaglio non solo la propria sopravvivenza politica, ma anche quella fisica. La situazione di Gaza è in fondo la cartina di tornasole di un diluvio che nei prossimi mesi potrebbe sommergere anche la Cisgiordania. Le Brigate Martiri Al Aqsa, considerate formalmente il braccio armato di Fatah, sono frammentate in una serie di sottogruppi alla deriva. Alcuni di questi, implicati a Gaza nei rapimenti di stranieri, oscillano tra la delinquenza comune e i richiami della galassia fondamentalista.
Tra queste schegge impazzite emergono gruppuscoli al soldo dellHezbollah libanese e altri pronti, secondo fonti dintelligence israeliane, a trasformarsi nellavamposto di Al Qaida nella Striscia. Hezbollah e lIran possono invece far pieno affidamento sulla Jihad Islamica per esercitare la propria influenza politica e militare.
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