Architettura Littoria Lezioni d’avanguardia tutte da sfogliare

Luca Gallesi

«In tutte le grandi epoche creative, l’architettura nelle sue manifestazioni più alte è stata la madre sovrana di tutte le arti, ed è stata un’arte sociale». Queste parole di Walter Gropius - fondatore, durante la Repubblica di Weimar, del celebre Bauhaus - spiegano perché non siamo in un’epoca creativa: l’architettura non è più l’arte sovrana e la sua funzione sociale, negli ultimi 60 anni, è stata soprattutto quella di creare anonime periferie, deturpando irrimediabilmente il paesaggio. Volenti o nolenti, dobbiamo riconoscere il fatto che l’ultima volta che l’architettura italiana ha insegnato qualcosa al resto del mondo è stato tra gli anni Venti e Quaranta, quando le rivalità tra architetti suscitavano accesi dibattiti sulla necessità di rinnovare il vecchio mondo «passatista», e artisti di fama internazionale facevano a gara per costruire case private e palazzi pubblici secondo i dettami del nuovo stile.
Milano era, come sempre, all’avanguardia, e lo ha dimostrato rinnovando università, ospedali, stazioni ferroviarie e case popolari secondo uno stile nuovo, «sorto da una interiorità dominata ed aperta al significato superiore delle cose», come si diceva allora con un po’ di retorica.
Un aiuto a conoscere meglio quell’ormai distante periodo ci viene dal bel libro illustrato «Architettura Littoria a Milano anni 1920-1930» di Bruno Brunetti e Giuseppe Vassalli (editore Lasergrafica Polver; distribuzione Pecorini: 02-86460660), vero e proprio baedeker che ci aiuta a vedere sotto una luce diversa molti edifici che fanno parte della nostra distratta quotidianità. Il milanese, si sa, non ha tempo da perdere né ama bighellonare, ed è quindi assai difficile che colga l’occasione di ammirare le piccole e grandi meraviglie architettoniche della nostra città che sono miracolosamente scampate ai bombardamenti e alla speculazione.
Sfogliare questo volume è come seguire un sentiero ideale, scavato nella memoria più nobile della nostra città da architetti e artisti che si chiamavano Mezzanotte, De Chirico, Bruni, Muzio, Portalupi, Gio Ponti, Piacentini, Funi, Sironi, Sant’Elia, Carrà e Terragni. Da piazza San Sepolcro alla Torre Littoria, dall’Arengario al Palazzo dei Giornali, dal Tribunale alla Stazione Centrale, dall'Ospedale Maggiore di Niguarda alla Piscina Cozzi, da Città Studi all'Università Bocconi, dalla sede dell’A.E.M. alla Camera del Lavoro è un susseguirsi di testimonianze di un passato lontano nel tempo ma vicino nella memoria, se non altro perché, dopo il 1945, è mancata o si è affievolita la volontà di costruire una progettualità ideale, tipicamente italiana, che si riflettesse anche nelle arti.

Come dimostrano le eleganti fotografie che arricchiscono il libro, a Milano, la nostra città, negli anni tra le due guerre, diventa la capitale morale dell'architettura, dove si realizzano palazzi che potrebbero benissimo figurare nei dipinti metafisici di De Chirico.


Gli edifici di piazza San Babila, piazza della Repubblica e di corso Matteotti, insieme con quelli che sono le attuali sedi bancarie del Gruppo Intesa in via Verdi, della Banca di Roma in piazza Edison e del Banco di Sicilia in via Santa Margherita sono la testimonianza di come sia possibile imprimere uno stile senza necessariamente distruggere l’esistente, ma anzi, armonizzandosi con esso. Del resto, a quei tempi si poteva concepire e realizzare un Palazzo dell’Arte, come quello della Triennale. Oggi, al massimo, si può realizzare un Palatendone.

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