Un argine resistente all’avanzata del Pci

Achille Boroli non è stato soltanto un grande imprenditore, un insostituibile azionista del Giornale negli anni più difficili e il promotore dell’Alleanza laica, ma anche l’ispiratore e il finanziatore di una iniziativa che ha contribuito non poco a salvare l’Italia dal comunismo: l’Arces (Associazione per la riforma dell’economia e della società), costituita nel corso di una riunione quasi carbonara a Massa Pisana dopo le elezioni del 1976, in cui il Pci arrivò a un pelo dal sorpasso sulla Dc. Aveva lo scopo di contrastare l’influenza della sinistra nei media, nella scuola e nell’editoria, e arrivò presto a raccogliere il fior fiore dei giornalisti e intellettuali dell’area liberale, da Indro Montanelli a Alberto Ronchey, da Gianni Letta a Gustavo Selva, da Enzo Bettiza a Mario Cervi, da Renato Mieli a Domenico Settembrini. Il comitato promotore arrivò a comprendere fino a 200 persone, che non vi avevano aderito solo pro-forma, ma davano tutti un contributo attivo alla causa. L’associazione, di cui Achille Boroli mi volle come segretario generale, assunse in breve un tale ruolo nella lotta politica italiana che Panorama, allora battagliero settimanale della sinistra, ci dedicò addirittura una storia di copertina, considerandoci l’anima della «resistenza»: in prima pagina c’era un disegno di Montanelli che soffiava in un piffero, per farsi seguire dagli altri. Ma se Indro lo suonava, era Boroli ad averlo fornito.
Ogni mese, il nostro patron veniva a trovarci nella sede che ci aveva aperto a Milano in viale Caldara e a verificare come procedevano i lavori. Ricordo queste visite come fosse adesso: sempre calmo, sempre gentile, sempre riflessivo, era animato in realtà da una passione profonda. I suoi occhi azzurri passavano da una scrivania all’altra, con grande curiosità per quello che stavamo facendo. Ma oltre che un mecenate, era una inesauribile fucina di idee. Fu lui a suggerire di aprire sedi in ogni città dove si trovassero volontari pronti a lavorare per la causa, e nel giro di pochi mesi arrivammo ad averne 105. Fu sempre lui a proporre che i membri del comitato andassero - nei limiti consentiti dai loro impegni - in giro per il Paese a tenere riunioni e conferenze per diffondere le idee di libertà e di fiducia nel mercato. Una di queste, con l’ex prefetto Libero Mazza come oratore principale, era in programma al Teatro Nuovo di Milano proprio la sera in cui spararono a Montanelli, e raccolse quasi duemila persone. Un’altra con Gustavo Selva, cui Boroli volle essere presente, riempì La Fenice di Venezia.
Da organizzatore nato quale era, Boroli teneva soprattutto al coordinamento di un fronte che allora era in Italia nettamente minoritario, e per esercitare la sua influenza doveva procedere il più possibile unito. Con la sua regia, lanciammo, quando lo reputavamo necessario, campagne di stampa con la partecipazione di tutti i giornali d’area, dal Giornale al Tempo a numerosi quotidiani di provincia come la Gazzetta di Parma. L’Arces ebbe per esempio un ruolo decisivo nel bloccare il tentativo della Triplice di costituire un unico sindacato di polizia aggregato al suo carro e aiutare nella costituzione del Sap. Intanto, cercava di arginare l’egemonia della sinistra nel mondo scolastico, fornendo un punto di riferimento agli insegnanti moderati e promuovendo testi scolastici obbiettivi al posto di quelli imbevuti di cultura marxista che predominavano all’epoca.
Erano anni difficili, e per Achille Boroli assumere un ruolo del genere non era certamente privo di rischi. Gli imprenditori che allora ebbero il coraggio di prendere posizione così nettamente, di impegnarsi in prima persona e di metterci del loro, non furono molti. Ma egli non sembrava curarsene, e non si preoccupava neppure dei costi materiali, che pure non erano indifferenti ed erano quasi interamente a suo carico.

«Sono danari che, se serviranno a salvarci, saranno i meglio investiti della mia vita» mi disse una volta al termine di una delle sue visite pastorali. Nel momento della sua scomparsa, sono felice che, più di trent’anni dopo, la storia gli abbia dato ragione.

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