Una banda di detenuti ma solo per fare musica

Mimmo Di Marzio

All'ingresso della «Staccata», il vecchio padiglione della casa circondariale di Bollate, campeggia un murales un po' stinto raffigurante gli orologi deformati di Salvador Dalì. L’orario si legge a malapena e forse ciò aiuta a dare la dimensione del concetto di tempo all'interno di un carcere. Qui però siamo in un penitenziario sperimentale e il direttore Lucia Castellano ha ben chiara l’idea che il tempo non vada sprecato, neppure se è dimezzato dall’indulto. E allora ieri all’inaugurazione del secondo laboratorio musicale realizzato grazie anche all'aiuto della Fondazione Vodafone, perfino il catering era interamente gestito da una cooperativa interna di detenuti. Per la grande occasione, benedetta anche dall'infaticabile don Rigoldi, gli iscritti ai corsi di musica organizzati dall’associazione Suonisonori hanno dato vita a un miniconcerto. Non tutti, è ovvio, hanno l'aria dei professionisti. Qualche rullata di batteria entra a tempo sbagliato e gli assoli scarseggiano. Il repertorio dei brani poi, sai com’è, risulta un po’ datato. Ma sulle facce segnate dai pasticciacci brutti e in alcuni casi anche dall’età, ieri brillava una luce quasi infantile, da festa di compleanno.
C. V., un giovane sudamericano che sembra uscito dal film «Amoresperros», una condanna per rapina e la prospettiva incerta, si candida per le lezioni di chitarra. Non ha mai suonato in vita sua per la verità e, incredibile a udirsi, segnala anche problema di orario. Sì perché nel carcere di Bollate le giornate sono scandite da un calendario di attività frenetiche che comprendono, a seconda delle peculiarità del singolo, didattica, lavoro fisico e corsi di vario tipo. Pare che a fine giornata crollino esausti manco fossero yuppies, altro che guardare il sole a scacchi. Adesso poi che, grazie a Mastella, la popolazione carceraria si è quasi dimezzata, ce n’è davvero per tutti.
Ma la Castellano al ruolo di Montessori delle patrie galere non ci sta. «È interesse della società che chi entra qui dentro, per il tempo che sia, anzitutto non peggiori. E possibilmente, una volta uscito, non ritorni dopo qualche mese. Attività come i laboratori musicali hanno uno scopo, prima che professionale, sociologico: ovvero di migliorare il rapporto tra i detenuti e nei confronti delle istituzioni. Fare musica, studiare, vuol dire anzitutto imparare a rispettare gli altri e apprendere delle regole, quelle che probabilmente nessuno ha mai loro insegnato».
Don Rigoldi, esperienza decennale nelle carceri milanesi, vede nella musica proprietà taumaturgiche: «Chi entra in galera ha bisogno anzitutto di rinforzare la propria autostima, il proprio senso di sé, un senso positivo nei confronti della vita. Queste cose la musica, soprattutto quella suonata in gruppo, è in grado di darle, lo sapevano anche gli antichi». Il laboratorio è una vera sala prove e di registrazione che non ha nulla da invidiare a quelle, poche, a disposizione dei musicisti milanesi a piede libero. «Quando si chiude la porta insonorizzata e accendiamo gli amplificatori - dice F.T., una condanna a tre anni - con un po' di fantasia potremmo essere ovunque».
Per il momento i corsi, diretti da Luca Canali dell’associazione Suonisonori che si occupa di promuovere l'arte come strumento di intervento nel sociale (www.suonisonori.it), si svolgeranno per sei ore a settimana. «Ma spero che in seguito potranno aumentare - dice Canali - dalla mia esperienza praticata anche al Beccaria ho potuto riscontrare che il carcere racchiude un fortissimo potenziale artistico. Non soltanto perché le persone hanno più tempo per studiare ma perché vibra un’energia e una carica umana difficilmente riscontrabile in altri contesti».

Il concerto è quasi finito e i giornalisti se ne vanno, ma c’è ancora spazio per le note di «Una città per cantare», vecchio brano di Ron, dimenticato dai più: ma Carlo, il cantante-galeotto che lo ha imposto all'improbabile band, chiude gli occhi quando arriva al ritornello «ma se ti fermi, pensando che ti si può ricordare...»

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