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Il bon ton di Ferrara va bene nei salotti Non se si è sotto attacco

Carissimo Granzotto, la sua franchezza rispondendo apertamente qui nell’Angolo a Marco Della Porta Raffo, mi fa sperare che ci sia modo di parlare brevemente anche di Giuliano Ferrara. In riferimento all’editoriale di domenica scorsa sul Giornale, scritto da un Giuliano Ferrara contrario all’intervento televisivo di Berlusconi, il nostro Sallusti ha già ribattuto in modo esauriente. Ma da lettore vorrei aggiungere che i berlusconiani come me l’apprezzamento stile Amnesty International di Ferrara rivolto non tanto a Berlusconi e ai suoi mille meriti concreti, ma al Berlusconi troppo perseguitato e sempre galantuomo suona inutile. E «mi consenta» di riprendere il tema del grande Perseguitato per dire che Ferrara pretenderebbe l’uso del fioretto sempre e in ogni caso in risposta alle bombe che arrivano da tutte le direzioni, riducendo per giunta a insignificante banalità il grave rischio che Berlusconi corre di porgere non solo l’altra guancia sua personale, ma quella di tutti noi del centrodestra e dell’intero Paese. Vien da pensare che a suon di fare l’ateo devoto, Ferrara rimanga sostanzialmente fuori dal Cattolicesimo senza capirlo. La qual cosa parrebbe confermata dalle «regole d’ingaggio» suggerite dal giornalista per l’attuale scontro politico, nelle quali l’unica cosa indiscutibile è l’assenza colpevole di sincera immedesimazione nel nostro Presidente...
Campomorone (Ge)

Giuliano Ferrara è animale politico e giornalistico tutto a modo suo, caro Avellino. Dopo aver sperimentato, sembrerebbe con orgoglio e soddisfazione, la militanza (politica e giornalistica) muscolosa e ad alto tenore di decibel, s'è convertito a quella morbida e sussurrata, ammiccante, garbatamente ironica, leggera e beneducata. Vorrebbe che l’Italia (politica e giornalistica) fosse un salon, un salotto parigino di quelli frequentati da Marcel Proust, dove tutto è calma, lusso, intelligenza, arguzia e bon mots. Così, un salon, è il suo Foglio: lo leggi e senti il tinnio dei bicchierini di Sherry o delle chicchere del tè (salvo nelle paginate sui temi etici e religiosi, da dove sale l’intransigente ruggito del primo Ferrara), un suono talmente rassicurante che poi della quotidiana lettura del Foglio non riesci, ed è il mio caso, più farne a meno. Il piacere (credo più estetico che etico) di fare il paciere colloca Giuliano Ferrara tra Giorgio Napolitano e il cardinal Angelo Bagnasco, usi a predicare una politica meno urlata, meno di parte e dunque, in teoria, più saggia. Si dà però il fatto che il capo dello Stato e il presidente della Conferenza episcopale possono o forse addirittura devono essere retorici: il ruolo lo richiede. Il loro insistente laico, evangelico e deamicisiano «voletevi bene» può inoltre non tener conto - e infatti non lo tiene - del così detto contesto. E cioè che da vent’anni - vent’anni - la politica e la stampa di sinistra seguitano a linciare non solo il Berlusca, ma i berlusconiani e gli elettori della destra liberale. Che da vent’anni è in atto un gioco al massacro contro metà del Paese e ciò in nome di una nevrosi giacobina che mette i brividi. E i mazzieri di quel gioco non siedono a villa San Martino, ma a Largo Fochetti e nei loft, nei bunker e nei salotti progressisti. Di tutto questo Giuliano Ferrara dovrebbe, invece, tener conto. Può da par suo sostenere che la scelta del «a brigante brigante e mezzo» non porta voti e non è detto che non abbia ragione. Ma non sorvolare sul fatto che a forza di porgere l’altra guancia si finisce per farsela maciullare.

E siccome farsi prendere selvaggiamente a schiaffi è faccenda dolorosa per il corpo e per lo spirito, consenta almeno al Cavaliere e ai suoi devoti non dico tanto, ma almeno di tirar calci negli stinchi a quei gradassi, a quei teppisti dei «sinceri democratici». Costi quel che costi.
Paolo Granzotto

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