Carteggio inedito

È il 3 luglio 1945, l’Italia vive l’euforia della Liberazione ma sono anche i mesi in cui si sparge il «sangue dei vinti». Don Giuseppe De Luca, sacerdote e intellettuale, tessitore di rapporti trasversali, scrive a Benedetto Croce, che al prestigio culturale ha riunito una certa influenza politica nella nuova Italia che sta per nascere. Il tono è accorato: «L’appartamento di Giovanni Gentile sta per essere non so se espropriato o comunque manomesso, tremo pensando che la raccolta di Gentile, stia per essere dispersa». De Luca ha a cuore i destini delle carte e della biblioteca di Giovanni Gentile, documenti rilevantissimi tenuto conto lo straordinario peso del personaggio, e si autodefinisce «buffo prete che scrive a Croce perché salvi i libri di Gentile». La risposta di Croce è diplomatica, per lungo tempo è stato il sodale intellettuale di Gentile poi se ne è tragicamente separato per la diversa posizione sul fascismo: «La questione dei libri è per me molto delicata e non posso entrarvi in alcun modo, anche perché non conosco la situazione esatta».
Questo scambio di lettere è uno spicchio di un universo molto più vasto, quello dei rapporti fra il sacerdote Giuseppe De Luca, esponente aperto della cultura cattolica, e il grande filosofo laico Benedetto Croce, che per la sua influenza si era guadagnato la definizione di «Papa» della cultura italiana. Lo scambio fitto di lettere che questi due personaggi ebbero dal 1922 al 1951, da corpo a uno «tra i carteggi significativi della storia della cultura italiana del Novecento», come ha scritto Emma Giammattei che ha curato la pubblicazione delle 138 missive (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. 203, euro 34).
Lo scambio di lettere tra il sacerdote di origini lucane e il filosofo è il confronto dialettico fra due mondi, non privo di franchezza quando c’è da rappresentare posizioni diverse. Nel 1922, quando il carteggio ha inizio, il fascismo è giunto al potere, «l’idealismo nella versione storicistica», osserva Emma Giammattei, «sembrava sconfitto e con esso l’antifascismo, a favore di un antagonismo politicamente funzionale fra l’attualismo gentiliano e la neo scolastica di padre Gemelli», il dialogo fra Croce e De Luca è uno squarcio di libertà in questo contesto. Significative le pagine in cui c’è uno scambio di idee su Alessandro Manzoni, di fatto una partita sul cattolicesimo nazionale dello scrittore lombardo che implica e sottintende il rapporto fra letteratura e politica.
Tutti e due accaniti bibliofili si scambiano informazioni sulle rispettive ricerche e De Luca recensisce spesso sull’Osservatore Romano i lavori di Benedetto Croce, diventandone anche una sorta di consigliere per gli affari religiosi. Il loro rapporto incontra criticità quando don De Luca diventa un interlocutore privilegiato di Giuseppe Bottai, sia pur non nella veste di gerarca fascista ma in quella di animatore della rivista Primato.
Nel 1942 Croce pubblica il celebre testo Perché non possiamo non dirci cristiani, nel carteggio sono contenuti spunti inediti su come questo saggio fu accolto e elaborato.

Non a caso, in appendice al volume c’è uno scritto di Giuseppe Bottai, apparso su Critica fascista, dal titolo già di per sé eloquente «Croce rincristanito per dispetto», mentre De Luca avverte il filosofo che se il suo storicismo crede al valore dell’identità nazionale, questa non può prescindere dal legame con la religiosità di un popolo, perché Dio «fu il Dio dei primi due secoli cristiani; il Dio di Agostino; il Dio di tutta la più grande civiltà europea, il Dio di Dante e di Vico, ed è il Dio di tanti cristiani...».
Per chi ama ricostruire i grandi dialoghi della cultura italiana, soprattutto quando si toccano temi fondamentali quali l’identità nazionale e il suo rapporto con la fede, questo è un carteggio significativo.

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