L'equilibrio internazionale sta attraversando una convulsa trasformazione che andrà a finire in un assetto mondiale molto diverso dagli ultimi decenni. E come in tutte le fasi di questo tipo anche le attuali trasformazioni sono contrassegnate da conflitti, armati o sotterranei, e da spinte possenti che puntano a nuovi scenari. Basta ricordare i capitoli delle crisi di questi anni: Georgia, boom cinese e repressione tibetana, rovesciamento di Musharraf, terrorismo islamista diffuso, riemersione degli scontri etnici, proliferazione nucleare...
Alcuni osservatori attribuiscono la responsabilità ultima di molti conflitti alla superpotenza americana che ha esercitato dal 1989, dalla scomparsa dell'Urss, la leadership mondiale. Si tratta dell'atteggiamento di chi è solito imputare all'America colpe diametralmente opposte: una volta sarebbe responsabile di scarso interventismo quando non mette pace nelle sanguinose guerre locali; ed un'altra peccherebbe di troppo interventismo per affermare i propri interessi economici e geo-strategici. Tale sarebbe il caso della Georgia.
Queste analisi sottovalutano però il ruolo assolto dagli Stati Uniti negli ultimi decenni. Dapprima con la responsabilità di unica superpotenza residua in grado di mantenere quell'equilibrio internazionale che fino al 1989 era governato dal duopolio di potere con l'Unione Sovietica attraverso la Guerra fredda. E, poi, con il carico assunto in isolamento per affrontare la guerra a quel terrorismo che ha dimostrato l'11 settembre un'immensa potenza ben diversa dai fenomeni locali conosciuti in precedenza.
Gli americani, lasciati soli anche dalla maggior parte degli europei nei compiti globali, hanno così dovuto affrontare negli ultimi diciotto anni - bene, meno bene, o male - le tante crisi, grandi e piccole, che si aprivano in ogni angolo del mondo. Le vicende dei Balcani, dell'Afghanistan e dell'Irak sono troppo note per doverne qui riparlare. Oggi, poi, i perenni critici degli Usa mettono sul piatto negativo della superpotenza anche la guerra di Georgia che deriverebbe dal fatto che le armi americane, direttamente o tramite Stati amici, stringerebbero d'assedio la nazione russa dall'Ovest e dal Sud.
Al di là della fotografia statica a me pare che si tratti di una tesi esagerata. Perché è sì vero che gli Stati Uniti hanno stretto alleanze politiche e collaborazioni militari con una serie di Stati - Polonia, Ucraina, Georgia... - che si sono buttati alle spalle la triste esperienza comunista rivolgendosi all'Europa e all'America, ma è forse necessario precisare che le scelte «occidentali» di questi popoli e Stati vengono prima e non dopo la collaborazione militare con l'America.
La verità è piuttosto un'altra. È il fatto che, nonostante la mossa forse sbagliata di Saakashvili che ha offerto il pretesto per l'intervento dell'ex Armata rossa, il manifesto obiettivo di Putin è la riconquista, in una situazione completamente diversa, del ruolo di superpotenza con la stretta egemonia sugli Stati circostanti, ex appartenenti o satelliti della Mosca sovietica.
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