A cena con Hitler per capire l’origine del Male

Se vogliamo scoprire la mente di Hitler, dobbiamo penetrare la spessa cortina di testimonianze superficiali che la nascondono; il carattere ripugnante che ne formava l’espressione - e che non esiste forza del pensiero in grado di compensare - e gli inaffidabili intermediari che l’hanno commentata. Dobbiamo andare dritti alle parole di Hitler: non certo quelle delle sue lettere e dei suoi discorsi - che, per quanto preziose, sono troppo pubbliche, troppo ufficiali al nostro scopo; dobbiamo invece rivolgerci alle sue conversazioni private, le sue «conversazioni tenute a tavola». La conversazione che si fa a tavola, come i quaderni di appunti, rivela la mente di un uomo in modo molto più completo, più intimo, che qualsiasi discorso formale. \
Tutte le conversazioni riportate in questo libro ebbero luogo alla Wolfsschanze o al Wehrwolf. Esse si tenevano durante i pasti, talvolta a pranzo, altre volte a cena, ancor più spesso in occasione del pasto più socievole: la lunga successione di tè e pasticcini - che di solito si protraeva ben oltre la mezzanotte - che concludeva una giornata di lavoro. Poi Hitler si dilungava. Conversatore appassionato, pare che egli, con la sua voce e con i suoi occhi - sebbene fosse una voce aspra e gli occhi fossero freddi - ammaliasse i suoi ascoltatori: nelle conversazioni informali, a differenza che nell’oratoria formale, il suo tono era fresco, flessibile, a volte persino allegro. Ovviamente si trattava per lo più di monologhi - anche se Hitler gradiva le interruzioni che lo stimolavano - e naturalmente spesso si ripeteva. Nondimeno, pare che la cerchia dei suoi intimi - infatti soltanto i suoi intimi, e qualche occasionale e fidato ospite, presenziavano a queste funzioni - lo ascoltasse con piacere. Nei suoi monologhi, gli ospiti vedevano tutta la mente del Führer: i dettagli autobiografici - e non documentati - della sua giovinezza, la storia segreta del glorioso Kampfzeit, la terribile ma stimolante filosofia grazie alla quale aveva già realizzato tre quarti del suo vasto programma e ora - così sembrava - stava per realizzare il resto.
Perché - era la loro domanda - non registrare nella loro autenticità le parole del Maestro per i posteri? Era una domanda che poneva in particolare Martin Bormann, l’evangelista letterato del movimento, l’indispensabile segretario di Hitler, l’agente infallibile e, alla fine, il suo fidato esecutore testamentario. Ma Hitler continuava a respingere l’idea. Detestava la presenza di apparecchi registratori o di persone addette alla registrazione nei suoi momenti di relax, quando si lasciava andare alla conversazione con tanta spontaneità, liberamente, a volte anche con allegria. Poi, d’improvviso, nel luglio del 1941, quando giunse il momento apocalittico e stava per iniziare il trionfo orientale, Hitler cedette. Continuò a proibire l’introduzione di registratori meccanici nella stanza, insistendo di non voler essere disturbato da figure estranee e da atteggiamenti importuni durante le sue conversazioni o per timore che la grande libertà dei suoi discorsi ne fosse inibita; tuttavia acconsentì a che un funzionario del Partito presenziasse ai suoi pasti; costui, in un angolo appartato e in modo discreto, avrebbe potuto prendere appunti, la forma definitiva dei quali sarebbe stata revisionata, approvata e custodita dall’unico fidato interprete del pensiero del Führer, Martin Bormann. \ Il libro contiene soltanto le parti delle conversazioni a tavola di Hitler che Bormann ha ritenuto opportuno registrare. Resta tuttavia il fatto che esse sono molto spesso ripetitive. E molto spesso riflettono la rozzezza e la crudezza, il dogmatismo, l’isteria e la banalità della mente di Hitler. Ma nonostante il disordine di un materiale tedioso e sgradevole, il libro contiene altresì il nocciolo del pensiero di Hitler ed è lo specchio del suo repellente genio: un genio che, a mio giudizio, è sia possibile che essenziale svelare.
Hitler si riteneva un uomo del destino, quasi il Messia - anche se egli stesso respinse espressamente questo appellativo religioso. Credeva di essere il solo - o quasi - in grado di comprendere la crisi del nostro tempo e di curarla. A suo vedere, la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale non era semplicemente una crisi della Germania: era - come aveva sostenuto Oswald Spengler - una crisi di civiltà, il genere di crisi che si verifica solo in rari momenti della storia, che può essere compresa unicamente da chi abbia studiato la storia passata in termini di secoli e a cui può porre rimedio solo chi è pronto a scatenare e in grado di controllare i cataclismi e gli sconvolgimenti in cui le età storiche periscono o nascono. Questa visione cataclismatica della storia era parte essenziale delle idee di Hitler, ed è essenziale che noi la comprendiamo: era infatti in questo quadro che egli vedeva se stesso e la missione che si attribuiva, ed in questo contesto giudicava gli uomini, sia i suoi contemporanei che quelli appartenuti al passato. \
Nel 1941, in virtù dei successi già conseguiti, Hitler vedeva confermata la sua convinzione di essere in grado di comprendere e di controllare il corso dei secoli. Con sempre più frequenza la sua mente viaggiava nella storia dell’umanità, soffermandosi sulle sue fasi cruciali e sui grandi uomini che ne erano stati gli architetti dei mutamenti. «Un uomo che non ha il senso della storia», diceva, «è come un uomo senza orecchi e senza occhi: naturalmente può vivere; ma poi?».
Qual era l’interpretazione che Hitler dava della storia? Era un’interpretazione rozza ma netta e - al pari di tutte le sue idee - sostenuta da un’ampia gamma di fatti selezionati arbitrariamente e immagazzinati nella sua straordinaria memoria, e che la sua mente irrequieta, rigida e metodica ordinava in schemi preconcetti. Inoltre, benché l’esperienza la arricchisse di nuovi dettagli e di nuove illustrazioni, essa, almeno dal 1923, continuò ad essere assolutamente lucida e coerente. Come Spengler, Hitler vedeva nella storia un susseguirsi di età umane che potevano essere comprese in base alle rispettive «culture», cioè la somma della loro organizzazione sociale e delle loro idee. \
«Spesso mi chiedo il motivo del crollo del Mondo Antico» \; e la sua mente vagava alla ricerca di possibili risposte alla domanda che lo lasciava così perplesso... Infatti, così come l’Impero romano si era ammalato prima di essere attaccato e distrutto dai barbari germanici, allo stesso modo la civiltà occidentale - a suo parere - si stava ammalando e stava lentamente morendo. O forse la si voleva lasciar morire? E se, invece, come l’Impero romano, fosse stata conquistata ed assimilata dalla nuova potenza barbarica che avrebbe finito per prenderne il posto? Ma quale sarebbe stata questa nuova potenza barbarica? Anche su questo argomento Hitler aveva meditato a lungo; e sulla scorta della «ferrea legge dello sviluppo storico», credette di aver trovato la risposta. In primo luogo, era chiaro che la nuova potenza - qualunque essa fosse - doveva essere una potenza di terra. \
Tutti i geopolitici tedeschi avevano ipotizzato che tale impresa sarebbe riuscita ai Russi, sia perché erano più numerosi sia perché erano già presenti su quel territorio, mentre auspicavano che la Germania stringesse un’alleanza con la Russia piuttosto che tentarne la conquista. Hitler, però, si chiedeva se ciò fosse davvero inevitabile.

Non erano forse i Tedeschi i Kulturträger, i portatori di cultura dell’Europa? Non erano germanici i popoli che avevano conquistato ed ereditato l’Impero romano dopo che questo era stato corroso al suo interno dal cristianesimo giudaico e dal declino demografico? Il Medioevo tedesco era stato ostacolato dal Rinascimento «cristiano», l’ascesa della società capitalistica plutocratica nell’Europa occidentale; ma ora che quella società capitalistica plutocratica stava a sua volta decadendo, i Tedeschi non si sarebbero potuti risvegliare?

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