Chiamare «eroi» i caduti di Kabul non è retorica

Caro Copetti,
per quanto riguarda gli abbinamenti della parola «eroe», ne leggiamo e vediamo di tutti i colori, sui giornali e in televisione. Eroe è il calciatore che segna un gran gol, eroi sono i fan della cantante Madonna che trascorrono molte ore in coda per vederla e sentirla, eroi sono i dipendenti d’una azienda pericolante saliti su una gru per difenderla. Mussolini disse che l’Italia era una terra di eroi, di santi e di navigatori. Per i navigatori si può avere adesso qualche dubbio, ma i santi e gli eroi non mancano mai.
Molto più delicato diventa il discorso quando lei propone di evitare il termine eroi per i caduti in Afghanistan, essendosi trattato di militari professionisti. La guerra, dice lei in sostanza, era il loro lavoro, pertanto sono caduti sul lavoro. Di sicuro si esagera con gli eroi, ma anche lei esagera volendo ridurre la morte in guerra a un deplorevole incidente. Proprio la professionalità militare dei caduti accentua a mio avviso la connotazione eroica della loro missione e del loro sacrificio. Frutto entrambi di una personale decisione.
Il suo ragionamento potrebbe trovare una parvenza di giustificazione nel fatto che i sei parà hanno scelto d’andare a Kabul, in territorio di combattimenti, ma sono stati falciati da un agguato kamikaze, non in uno scontro armato. Ma anche questa considerazione non mi convince. Soprattutto non mi convince in un Paese come il nostro dove tante città e borgate sono state decorate di medaglie d’oro al valor militare per essere state bombardate e distrutte durante la Seconda guerra mondiale. Coloro che subirono cannoneggiamenti e bombardamenti e vi persero la vita furono martiri, povere vittime d’una guerra sbagliata, non eroi. Ma i parà non erano a casa loro, erano in uno dei luoghi più insidiosi del pianeta, l’Afghanistan dei talebani. E dai talebani stessi sono stati uccisi in una imboscata.

Eroi dunque.

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