Al club del Tavernello amiamo mangiare, non la fuffa parolaia

Caro Granzotto, già cinque anni fa, Carlin Petrini aveva battezzata tutta questa messa in scena di piatti in televisione «pornografia gastronomica». Ora che la cucina ha guadagnato la prima serata come la chiameremo? Chiedo lumi a te, presidente del Club del Tavernello che da mesi ha abbandonato argomenti leggeri per dedicarsi a quelli più impegnati (batti un colpo Granzotto!). Eppure anche la tivù ha scelto un’altra strada e magari anche Bruno Vespa, che sui referendum è stato allineatissimo col non dibattito, abbandonerà, facendo finta di niente, la fastidiosa politica per dedicarsi a un genere che di fatto lui aveva inaugurato facendo cucinare a D’Alema il risotto alla Vissani ed estorcendo alla moglie di Letta la ricetta della crostata al sapore di Bicamerale. Non so: da un lato l’esposizione mediatica di cibo e vino accende attenzione su un valore italiano che è anche comunicazione, dall’altro vedo dietro l’angolo la macchietta, il folklore e persino il divismo dei cuochi che preferiscono la tivù alla cucina dei loro ristoranti, dove costerà sempre di più mangiare (anche il successo ha un costo... per i consumatori). Sarà un bene o un male per il bene che tutti coccoliamo, ovvero il gusto delle buone cose italiane?

Hai ragione, caro Massobrio: troppo a lungo ho trascurato il Circolo del Tavernello (del quale sono presidente emerito a vita). Ma majora, orpo se erano majora, premevano e tuttora premono. Però, chiamato in causa da un principe dei critici enogastronomici quale sei, non mi sottraggo. E vuoi saperne una? Non sono d’accordo - e quando mai lo sono? - con il Carlin Petrini. Liquidare come pornografia gastronomica le decine di trasmissioni televisive che si occupano di cucina, intesa come preparazione dei cibi, mi pare davvero troppo. Se la trasmissione alla quale poi ti riferisci è La notte degli chef io parlerei piuttosto di gastronomia circense. Ricorda le gare fra chi mangia più fette d’anguria o wurstel o uova sode in cinque minuti. Comunque, se a noi buongustai all’antica e dunque reazionari poco ci garbano e interessano le ridicole spignattate della Notte degli chef, lo stesso può dirsi della loro antitesi, la boriosa snobberia del petrinesco slow food con relativi sdilinquimenti per quel certo cacio prodotto in un villaggio ai piedi dell’Anapurna o quel legume (in via d’estinzione, poteva essere altrimenti?) coltivato col sudore della fronte degli indios di una tribù amazzonica. A noi, caro Massobrio, piace mangiar bene: non menarla con la trouvaille gastronomica e meno che mai con la filosofia, la sociologia e la «cultura» del cibo e delle bevande. E so che in questo tu, autore del Golosario che è un po’ Baedeker di noi del Tavernello quando si va alla busca di trattorie e osterie, ci sei sodale. Per tornare al divismo televisivo degli chef, male non fa, a mio avviso, al «bene che tutti coccoliamo, ovvero il gusto delle buone cose italiane». I cuochi superstar si rivolgono infatti a quei consumatori che invece di bere il contenuto di una bottiglia, bevono l’etichetta, quando vantata con la dovuta trombonaggine acchiappagrulli (sentori di frutta rossa, asfalto, cuoio inglese eccetera). E che mangiano non quello che c’è nel piatto, ma il menu, quando firmato da uno chef che batte i marciapiedi televisivi o che sforna roba «molecolare», passata all’azoto liquido o siringata sotto forma di emulsione. Cosa ne sanno mai, quegli avventori, del gusto delle buone cose? Il loro mito è Ferran Adrià, che ha giustappunto sentenziato: «Il cliente ideale non viene nel mio ristorante per mangiare, ma per provare un’esperienza». Ebbene, noi invece si va al ristorante per mangiare.

Non ci facciamo mettere nel sacco dalla fuffa verbale, ché quella mica la si mette sotto i denti e dunque sappiamo cogliere al volo la differenza fra una cosa buona e una fregatura garantita. Per farmi capire: tra il dalemiano risotto di Vissani e la crostata bicamerale della signora Letta, buona la seconda. A chiusocchi.
Paolo Granzotto

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