Condannato barista: non dava il caffè ai neri

L’uomo si difende: «Non è razzismo. Quei ragazzi erano sempre ubriachi»

da Verona

Il razzismo è fatto anche di piccoli continui «no», come quello del gestore di un bar di Verona che per quasi cinque mesi si è rifiutato sistematicamente di servire consumazioni a clienti extracomunitari finchè un giorno due magrebini - lavoratori, col permesso di soggiorno, «rispettosi» e senza precedenti - hanno reagito a quel «no» chiamando la polizia contro il barista xenofobo. Adesso la Cassazione - sentenza 46783, Terza sezione penale - ha confermato la condanna a quattro mesi di reclusione nei confronti di Luca, l'esercente del bar Giardino di Verona che, «per prassi», non serviva gli extracomunitari con la scusa che se bevevano creavano «disordini». In quel bar la regola era «questa è la mia casa, do il caffè a chi voglio io»: anche la sorella di Luca, Elena, osservava lo stesso principio. Anche lei è stata processata e condannata. Senza successo il barista razzista ha fatto ricorso in Cassazione contro la sentenza emessa, il 3 giugno 2003, dalla Corte di appello di Venezia.
Anche in primo grado, il 27 giugno 2002, il Tribunale di Verona gli aveva inflitto quattro mesi. In particolare, la Suprema Corte gli ha ricordato che era stato proprio lui, con la sua «confessione», a rivelare che il suo «atteggiamento e la condotta di esclusione dal bar degli extracomunitari e, in particolare dei nord-africani, non costituivano un fatto occasionale o isolato, ma erano espressione di un modo di pensare ed agire abituale». Per gli «ermellini» non c'è dubbio che questo comportamento è ispirato a «intenti di discriminazione per motivi razziali o etnici», punibili in base alla legge 286 del 1998 sull'immigrazione. A sostegno della colpevolezza del barista la Cassazione sottolinea che i due magrebini, ribellatisi al sopruso, «non risulta che quel giorno, nè in passato, avessero mai tenuto comportamenti tali da renderli pericolosi o indesiderabili». Luca, per i giudici, ha negato i caffè per pura e semplice volontà di «offendere la dignità dei due clienti solo a causa della loro diversa razza ed etnia».
«Pago per la mia voglia di tenere viva un'attività commerciale - ha detto il barista - pago la necessità di lavorare, pago per chi è stato assente quando segnalavo dei problemi di ordine pubblico. Molte di quelle persone erano ubriache, nel mio bar ci sono veronesi come cinesi, romeni o di altri Paesi. Il problema è un altro, quello della sicurezza che in nove anni è decisamente cambiato. Il giro di persone che frequenta questa zona è diverso e non ho nessun problema a far entrare qualcuno nel mio locale e a servirlo indistintamente da dove arriva, da cosa fa, da che lingua parla o come si veste».

Per casuale coincidenza questo processo è stata deciso, in camera di consiglio, lo scorso 5 dicembre. Proprio quando la Quinta sezione penale della Cassazione aveva depositato le motivazioni della sentenza 44295 che afferma che l'ingiuria «sporco negro» non ha, di per sè, connotati razzisti.

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