Pubblichiamo in questa pagina il racconto inedito dal titolo Il canto che lo scrittore russo naturalizzato italiano Nicolai Lilin leggerà domani, in occasione della serata conclusiva della «Milanesiana», ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. L'appuntamento è per domani, martedì 9 luglio, alle ore 21 al Teatro OUTOFF di Milano (via Mac Mahon, 16). Insieme a Nicolai Lilin saranno presenti anche Flavio Soriga e Paolo Fresu.
Quando l'uomo uscì dall'ascensore con una vecchia borsa di stoffa tenuta stretta nella mano, non era più la stessa persona che un minuto e trenta secondi prima aveva attraversato con un passo la cabina a piano terra dove tutto era impregnato della puzza di urina mischiata con il fumo di sigaretta e plastica bruciata. La lampadina che illuminava dall'alto quello spazio stretto creava una debole luce gialla che, annegando nei cortocircuiti, coccolava gli abitanti del condominio come un'amante epilettica. La sagoma dello specchio che una volta era incorporato alla parete, e sparito da lì tanto tempo prima, costringeva a immaginare i propri riflessi, impossibili da vedere. Quasi automaticamente l'uomo si spalmò i pochi e disordinati capelli sulla testa e con noncuranza esaminò la presenza di caccole nel naso, infilando l'indice e con pazienza e delicatezza testando le narici. Il suo riflesso, se avesse potuto apparire nello specchio assente, sarebbe stato l'ologramma materializzato della pura pazzia. Lo sguardo fisso e inerte, da morto, la faccia magra e lunga, il collo storto, in continua ricerca d'appoggio, le mani piene di graffi di gatto e lontane da qualsiasi esperienza umana, una vecchia maglietta dei giochi olimpici di Mosca del 1980, tutta stropicciata e scolorita, con il simbolo delle olimpiadi - un allegro bell'orsetto russo che dopo anni di uso e lavaggio a mano aveva preso le sembianze di una vecchia marmotta innamorata.
L'uomo era entrato nell'ascensore fumando e quando la sua sigaretta senza filtro si era consumata, bruciandogli le labbra coperte dai baffi disordinati di color marrone-giallo-arancione, aveva fatto un ultimo tiro lungo e profondo, inspirando il fumo con piacere e una sorta di malinconia, digrignando i denti in una smorfia di dolore provocato da un pezzo di tabacco grezzo che si inceneriva sulla carne delle labbra.
All'altezza del quarto piano, mentre i cavi di ferro con fatica tiravano la vecchia cabina in alto, l'uomo si guardò intorno con sospetto, anche se era consapevole di essere solo. Spense la cicca schiacciandola contro uno dei pulsanti di plastica, e infine la buttò nel buco dove una volta c'era il pulsante del secondo piano. Stando con i piedi al centro esatto dell'ascensore, si era appoggiato con le spalle alla parete. Era sporca, coperta da scritte volgari accompagnate da disegni semiprimitivi che evocavano genitali maschili e femminili, diverse posizioni di accoppiamento tra esseri umani e animali, svastiche naziste, stelle comuniste e qualche «A» di anarchici. Stando tutto storto nella scatola di ferro che saliva piano dentro le budella del palazzo di cemento, l'uomo aveva le sembianze di un punto interrogativo nel bel mezzo dei testi sacri. Nella sua testa rimbalzava il silenzio tipico degli infiniti paesaggi, dei posti dove l'animo umano si deprime sotto il peso potente e definitivo della leggerezza della natura. La sua mente vagava tra gli spazi nei quali lui personalmente non era mai stato, dove non aveva mai pensato di finire e da dove non avrebbe saputo trovare la via del ritorno. Tra le nuvole bianche, spinte dai raggi del sole che trafiggevano l'aria azzurra del cielo, come spietato coltello infilato nel fianco addolorato, arrivavano i canti degli angeli all'udito degli eletti. Accompagnati da un'orchestra composta da rapidi soffi di vento tra antenne televisive sui tetti, grondaie e pieghe tra i fogli di catrame secco e sbriciolato, gli angeli cantavano una canzone che risvegliava un'assurda nostalgia per i tempi passati, per quello che l'uomo era una volta, per come sentiva e per quanto sottile e nobile era la sua sofferenza. La memoria si materializzava, prendeva una forma distorta sul volto scosso da un forte turbamento. La sua voce roca cominciò a partorire parole che, sputate con odio dalla sua bocca nera e marcia, lo circondarono nello stretto e sporco abitacolo, violentando il silenzio con la spregiudicatezza di un maniaco depravato. L'uomo cominciò a cantare:
I comunisti hanno preso un ragazzo, l'hanno portato al KGB!
Racconta! Chi ti ha dato i libri, istruzioni per la lotta clandestina?
Davanti agli occhi apparivano come fantasmi le scene del passato. La macchina nera nel cortile del loro condominio, gli uomini con i guanti di pelle, i libri nelle lingue straniere tirati fuori dai nascondigli nel pavimento, sotto la vasca da bagno. La macchina da scrivere spinta via dall'appartamento a calci, fogli, tanti fogli con poesie, racconti, idee, riflessioni, tutto buttato nei sacchi neri e portato via. Poi la stanza in uno scantinato umido e buio, il nauseante odore del dolore, le botte, sieri nelle vene, luce in faccia e acqua fredda addosso. Grida, urla, sputi, sigarette spente nelle orecchie. Gli stivali neri che calpestano le mani, la faccia, le ossa e la pelle.
Perché andavi contro la legge, diffamavi il nostro movimento Leninista?
Io sputo sul vostro Lenin, - rispondeva il giovane eroe -
so che mi daranno una condanna pesante, ma non ho paura di prigioni e torture.
Presto un branco di squali capitalisti cancellerà la vostra Unione Sovietica.
L'uomo sorrideva e i suoi occhi brillavano di lacrime, ricordando il tempo passato nell'ospedale psichiatrico, le partite di scacchi immaginari che organizzava con il compagno di stanza, un professore di matematica ebreo senza denti e con gli occhi tristi. In ospedale non si poteva avere niente, quindi avevano dovuto sforzarsi di immaginare la scacchiera e le figure, e ad ogni movimento dovevano ripetere a voce le posizioni di tutte le pedine, per non fare confusione. Con quali giocava lui? Con i neri? I bianchi? Quando avevano portato via il suo compagno di stanza? Perché? Chi aveva vinto? Qualcuno aveva mai vinto? Quanto duravano le loro partite? Giorni, mesi, anni? Si sentiva il rumore del meccanismo dell'ascensore, il ferro che scricchiolava al movimento delle ruote. Passando da un piano all'altro arrivavano diversi odori: di lucido da scarpe, della vernice fresca di qualche appartamento in ristrutturazione, di marcio dell'immondizia, che si diffondeva dai tubi che traforavano le carcasse dei palazzi come vene che portano sangue infetto di cancrena. All'altezza del quinto piano si era sentito il leggero profumo di lei, creatura selvaggia d'incredibile bellezza e totale crudeltà, per la quale lui molti anni prima aveva deciso di buttarsi dal tetto del sedicesimo piano, ma poi era ritornato a casa, perché gli era venuto in mente un buon verso da scrivere. Adesso quella creatura bellissima stava rinchiusa nella sua prigione di cemento, sposata con un'ombra, circondata da odori di cucina, incatenata alla realtà del calendario a strappo. E nessuno tranne lui ricordava quali mondi fantastici portava quella ragazza negli occhi, come brillavano, com'erano profondi. Ora morti e appassiti come il grembo di una tomba.
La clandestina antisovietica Klava piange piano nel buio della notte,
ricordando come il giovane ragazzo incolpava i boia bolscevichi.
Presto l'immagine della società libera ci aiuterà a riconoscere la verità,
presto la libertà di ogni singolo individuo sconfiggerà la vostra dittatura.
Concentrato nei ricordi, l'uomo non si era accorto di come qualcosa di sospeso nell'aria avesse fatto esplodere tanta luce nella sua mente, le parole, le memorie si erano mischiate, anche le voci degli angeli, anche quelle erano finite in mezzo alla giostra del caos che arrivava come un uragano dal centro del suo corpo, passava serpeggiando lungo la colonna vertebrale, bruciando tutto, e poi si sprigionava sparata in su, attraverso i micro tunnel della scatola cranica. Era tutto e niente, un momento infinito, un preludio all'apertura delle porte del sedicesimo piano. Camminando verso la vecchia porta grigia del suo appartamento, l'uomo ingoiava con dolore la saliva, per bagnare la gola secca, una pugnalata. Le sue mani tremavano leggermente, la mente era piena di luce e priva di memoria. Gli erano ritornati alla mente i versi, tanti sentimenti e di certo in un'altra vita si sarebbe messo subito al lavoro, giorno e notte davanti alla macchina da scrivere, a consumare il vuoto della carta pulita. Ma gli anni in ospedale lo avevano reso astemio alla realtà, al pensiero, alla memoria, senza lasciargli il diritto per conclusioni, fantasie, tentazioni, sofferenze. Perciò tutto quello che gli passava per l'anima sfuggiva immediatamente, come vento che scorre tra le stanze vuote di una casa abbandonata. E il ricordo che gli era rimasto era solo quel sorriso impolverato che s'intravede dai muri sporchi, spalmato sulla vecchia fotografia, come l'impasto per il pane sul tavolo di un panettiere.
Lui era il figlio dell'epoca del declino sovietico, e quella specie di estasi momentanea nell'ascensore era la parte più bella, intima, profonda e in assoluto poetica, che gli poteva capitare nel grigiore delle sue giornate.
© Nicolai Lilin, 2013. Diritti
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