E sul diamante brilla «il cannone di Kathmandu»

E sul diamante brilla «il cannone di Kathmandu»

F urono oltre 2000 le lettere che la rivista Sports Illustrated ricevette nel 1985, nei giorni seguenti la pubblicazione di un articolo a firma George Plimpton, una delle personalità più eclettiche del Novecento letterario americano: giornalista, scrittore, cofondatore della Paris Review e grande sportivo. Vi si narrava la vicenda di un giovane inglese convertito al buddismo, di nome Hayden «Sidd» Finch. (Il «Sidd» era un omaggio al Siddharta di Hesse). Sull’Himalaya, meditando, aveva conquistato un talento impareggiabile. Per sfruttarlo, Sidd era giunto fino alle coste della Florida, al ritiro prepartita di una importante squadre di baseball, i New York Mets. Più che titolato, volendo, a indossarne la divisa. Perché Sidd è «il Cannone di Kathmandu»: lancia la palla a una velocità mai raggiunta da braccio umano. Certo, quando lancia indossa una scarpa sola. E non ha mai giocato a baseball, visto che è cresciuto in un orfanotrofio prima di essere adottato da un archeologo poi scomparso in un incidente aereo. Certo, è ancora indeciso tra il baseball e lo yoga, visto che ha imparato «l’arte del pitch» da un guru tibetano. E quindi si potrebbe, sempre volendo, arrivare a supporre che sia frutto di surreale invenzione. Soprattutto perché l’articolo su di lui porta una data eloquente: primo aprile. Ma il mondo dello sport va in subbuglio lo stesso, anche perché la storia è accompagnata da fotografie di Sidd in compagnia del vero coach dei Mets. Sports Illustrated decide, sette giorni dopo, di indire una conferenza stampa in cui annunciare che quell’arte, conquistata sull’Himalaya, si è perduta scendendo a quote normali. Ce ne vorranno altri sette perché riveli il pesce d’aprile, che due anni dopo divenne un romanzo. Un quarto di secolo dopo, quel romanzo viene tradotto in Italia per la prima volta con il titolo Il curioso caso di Sidd Finch (66thand2nd, pagg. 320, euro 17). Lo scherzo ha fruttato a «Sidd» un posto d’onore in più d’un museo delle cere e si è rivelato un’ottima scelta narrativa rispetto a quella che Plimpton stesso, nell’introduzione, racconta essere l’alternativa possibile: «Nel 1985 Mark Mulvoy, caporedattore di Sports Illustrated, mi chiamò per propormi due progetti.

Uno era un approfondimento su una vicenda accaduta alla maratona di Londra dove un corridore giapponese, subito dopo l’arrivo, era andato in confusione e aveva pensato di dover correre non per 42 chilometri, ma per 42 giorni. Era scomparso nella campagna inglese. “Qual è l’altra proposta?” chiesi a Mulvoy».

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