Marco Tarchi, perché lambientalismo in Italia sembra essere appannaggio della cultura di sinistra?
«Perché la destra italiana è da decenni affascinata da una visione della società in cui spicca il culto delliniziativa individuale, del produttivismo, del successo economico, del lavoro e soprattutto dellimprenditorialità come fonte di affermazione meritocratica. Tutti ingredienti che si accordano con lidea dello sviluppo coltivata dal capitalismo liberale (e, ovviamente, liberista), per il quale le preoccupazioni ecologiche sono sempre state un fastidioso intralcio a progetti di indefinita espansione della ricchezza. La sinistra è arrivata più tardi alla convergenza su questa visione del mondo: prima di convertirsi in larga parte allindividualismo e al consumismo, ha predicato austerità e altruismo, sposando cause che venivano viste - a volte realisticamente, a volte ingenuamente - come di beneficio per lintera umanità. Dagli anni Settanta, fra queste è entrata lecologia».
Quindi è la destra italiana che si è fatta «scippare» questo tema.
«Malgrado alcune incursioni estetiche sul terreno di un anticapitalismo romantico e inconcludente, negli ambienti neofascisti è stata coltivata a lungo una visione del mondo piccolo o medio-borghese in cui le preoccupazioni per lambiente si sono quasi sempre ridotte al desiderio di vivere in ambienti ordinati, curati, ben conservati. Alcuni settori minoritari, più sensibili alle invettive antimoderne contro il mito di un indefinito progresso, hanno colto il limite di una posizione di questo genere per una forza politica che, come il Msi, si pretendeva - velleitariamente - alternativa al sistema e si sono proposti di sfidare legemonia della sinistra nella difesa dellambiente già trentanni fa. Ma sono rimaste isolate: esibite di tanto in tanto come un fiore allocchiello per difendersi dallaccusa di favorire la cementificazione o labusivismo edilizio, ma emarginate e lasciate prive di risorse, quando non avversate».
Proprio lei in passato è stato fra gli animatori di questo pensiero ecologista che sfidava legemonia della sinistra in campo ambientale. Si è occupato anche in seguito di questo problema?
«Più di quanto avessi fatto prima. Alla metà degli anni 80, la comparsa di un movimento politico ecologista che si proponeva di collocarsi non a destra, non a sinistra, ma oltre (le vecchie linee di frattura politico-culturali del Novecento) mi è parsa corrispondere a preoccupazioni e aspettative che coltivavo da tempo. Dopo alcuni confronti pubblici e privati con alcuni animatori delle prime liste verdi, Alex Langer mi invitò al cosiddetto Concilio verde che si proponeva, in vista delle elezioni europee del 1989, di raccogliere trasversalmente quanti erano disposti a sfidare i sostenitori del modello di società industrialista e materialista, sia nella versione conservatrice di centro e/o di destra, sia in quella progressista di sinistra. Purtroppo, già allora mi fu chiaro che lecologismo era visto come un cavallo di Troia dal settario e fallimentare gruppo dirigente dellultrasinistra demoproletaria in cerca di riciclaggio, che lo avrebbe condotto in un vicolo cieco. Purtroppo, lecologismo politico italiano ha preferito il piccolo cabotaggio e le rendite di posizioni personali facendo da appendice di una delle parti politiche contro le quali era sorto, e me ne sono distaccato».
Secondo lei cè spazio oggi per un «ambientalismo nazionalista» o «patriottico», come sostengono alcuni a destra?
«Un ambientalismo nazionalista è un non-senso, perché i problemi ecologici cruciali hanno una dimensione planetaria.
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