D’Alema non «fa tendenza», fa sghignazzare

Caro Dott. Granzotto, per l’ennesima volta si verifica che i nostri mai smentiti comunistardi gioiscano con il cuore, con il corpo e con la mente dei frutti del bieco capitalismo, apprezzati dall’odiata (anche per questo) e combattuta borghesia. Dopo sette decenni di anche violento combattimento contro i princìpi di vita propri di coloro che non hanno voluto conformarli alla loro ideologia, anche i nostri sinistri propugnano ora l’idea che non è per loro peccato desiderare di godere dei beni di consumo propri dei «ricchi». Nel mio piccolo, ritengo di godere di un’agiatezza tale da potermi permettere comodamente sia cachemire che Engadina. Il mio modo d’essere, però, costruito in una vita di lavoro durante la quale, pur non essendo mai stato comunista, ho sempre misurato le mie disponibilità di spesa per i miei personali consumi in base al valore che il mio senso dell’esistenza attribuiva loro, non mi ha mai portato a considerare che questo tipo di piaceri potesse gratificarmi in modo speciale. Dopo aver ripetutamente appreso da D’Alema e dai suoi sodali che a parer loro non c’è nulla di male, pur essendo di sinistra, ad ambire a godere dei piaceri «borghesi», oso controbattere che delle due l’una: o hanno vissuto falsamente la loro ideologia, secondo la quale avrebbero dovuto impostare il loro stile di vita e le loro scelte esistenziali nel periodo in cui si professavano comunisti in modo più sobrio, oppure sono falsi oggi con i loro intendimenti politici, che derivano da puro trasformismo, senza peraltro alcuna abiura del loro credo originario.

Troppa grazia, caro Viganò. È esattamente come lei dice: in D’Alema (come in moltissimi altri suoi sodali di sinistra) alla levità di pensiero politico-ideologico si unisce la premeditazione al camaleontismo di classe. Ma perché fargliene una colpa? Così com’è, D’Alema è per noi una mano santa, mi creda. Io nutro per lui lo stesso genere d’ammirazione che Indro Montanelli aveva per Stalin. A chi gli chiedeva perché tenesse sulla scrivania un piccolo busto in ghisa di Baffone, rispondeva: «Nessuno come lui ha fatto fuori, anche fisicamente, tanti comunisti». E nessuno ha fatto tanto danno alla sinistra come D’Alema, caro Viganò. Per la sinistra, D’Alema è quel che si dice un’iradiddio. Lasciamolo dunque lavorare in pace, per la gioia nostra e il mal di pancia dei «sinceri democratici». E poi, scusi, perché sprecare tante parole per il D’Alema combinato da villeggiante invernale alto-borghese? Ne basta una: ridicolo. Non è questione di cachemire o di copricapi di lana d’angora, roba che oggi trovi al collo e in testa all’ultimo dei tamarri. Non sono nemmeno gli occhiali da sole all’ultima moda della cieca di Sorrento. È l’insieme, è il sembiante che risulta macchiettistico. Perché, vede, a D’Alema puoi mettere indosso i doppi petto dell’avvocato Agnelli, il maglioncino girocollo di Marchionne, l’impermeabile bianco di Cuccia, i jeans e blazer di Jas Gawronsky, gli straccali rossi di Giuliano Ferrara e perfino la canotta di Umberto Bossi, ma sempre emergerà la traccia di popolaresca buzzurragine (come in Gianfranco Fini, del resto. Non sono le cravatte rosa che contano, ma il collo al quale s’annodano e ciò che il collo sorregge). Questo perché per essere portati con naturalezza, con elegante disinvoltura, anche un genere d’ordinario abbigliamento necessita di un phisique e di un savoire faire du rôle che a Massimo D’Alema fanno difetto.

La canotta indosso a Bossi «fa tendenza», indosso a D’Alema farebbe sghignazzare. D’accordo dunque che l’abito fa il monaco, ma se poi il monaco che ne esce è fra’ coso da Velletri, lei capisce, caro Viganò, che tutto finisce a cinepanettone, sinistra compresa.
Paolo Granzotto

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