Don Pepè, scarcerato per malattia ma capo indiscusso della banda

Una rampa di scale separa, a Palazzo di giustizia, il tribunale di sorveglianza - l’ufficio, cioè, che si occupa di gestire i detenuti condannati in via definitiva - dalle stanze della Procura distrettuale antimafia. Ma la vicinanza fisica non comporta, evidentemente, scambio di informazioni. Così è stato possibile che mentre al settimo piano si decideva di concedere al detenuto Giuseppe Flachi in arte «Pepè», condannato per omicidio, una serie di permessi e poi la scarcerazione per motivi di salute, al sesto piano si indagava sullo stesso detenuto. E si scopriva che, nonostante i lunghi anni trascorsi in carcere e le condizioni malferme, don Pepè continuava a governare dal carcere una struttura criminale di efficienza quasi militare. Lo stesso detenuto che al settimo piano era considerato così poco pericoloso da permettergli di andare a curarsi a casa, al sesto piano era indicato come l’ «organizzatore, capo e promotore» dell'associazione mafiosa che regnava sui marciapiedi e sui locali delle notti milanesi.
Già dalle conversazioni in carcere con il figlio, intercettate durante e indagini e riportate nell’ordine di cattura di ieri, emergeva che Pepè Flachi non si era affatto ritirato in pensione. Quando poi al boss hanno iniziato a venire concessi i permessi, si è scoperto che quest’uomo non alto, dai toni sommessi e dal sorriso simpatico utilizzava buona parte di questi permessi per riprendere in pieno le redini dell’organizzazione. E quando poi, sulla scorta di un certificato medico che ne attestava la gravità delle condizioni, Flachi è tornato in Comasina, è tornato - o almeno così dicono gli inquirenti - a fare il Capo. Con la C maiuscola, e rimettendo in riga anche familiari e soldati indisciplinati e inefficienti.
Qual è allora il vero Pepè Flachi? L’uomo quasi anziano, piegato dal carcere e dalla malattia, di cui parlano i certificati medici? O il capoclan spietato di cui si legge nell’ordinanza di custodia? I vertici del tribunale di sorveglianza di Milano non hanno finora ritenuto di rispondere alle domande del Giornale sul percorso che ha portato i giudici a fare uscire Flachi dal carcere. Se i magistrati della Procura hanno ritenuto di tenere nascosta fino all’ultimo l’esistenza dell’inchiesta anche ai loro colleghi del tribunale di Sorveglianza è stato verosimilmente per tutelare la segretezza dell’inchiesta e non mettere sull’avviso il clan.

Ma, ora che si gioca a carte scoperte, è facile immaginare che la Procura vorrà capire meglio cosa è successo. E, in particolare, se i robusti agganci di Flachi e del suo clan col mondo della sanità pubblica e privata abbiano aiutato il boss a passare per moribondo, e a tornare libero con la benedizione della legge.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica