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Le due donne che sfidano Karzai e la tradizione

Sono due temerarie, due fiori nel deserto, due sorrisi di speranza in una cupa e nera moltitudine di burqa. Ma non sono la punta di un iceberg. Sono solo due isolate eccezioni, due piccole insignificanti anomalie destinate a colpire la trasognata curiosità occidentale, ma a scomparire inosservate nella rassegnata normalità afghana. Si chiamano Frozan Fana e Shahla Ata sono le due uniche candidate donna di questa corsa alla presidenza e, non a caso, arrivano entrambe da famiglie di generali. I loro padri erano militari rispettati e temuti, al tempo dell’invasione sovietica, loro sono cresciute e hanno studiato in una Kabul lontana, fino all’avvento dei talebani, dalle tradizioni e dagli obblighi religiosi.
Ma nell’Afghanistan di oggi e ieri restano due corpi estranei, due candidati senza speranza. Per capirlo basta lasciarsi alle spalle la capitale visitare, come ha fatto chi scrive, i villaggi della Zamardan Valley a nord di Farah. Tra quelle trecento case di terra e paglia se chiedi al capo villaggio Haji Mohammed Hussein quante donne voteranno ti senti rispondere con una sola parola «nessuna». La successiva spiegazione è altrettanto semplice. «Qui nessuna donna riceve il certificato elettorale perché nessuna sente il bisogno di chiederlo e tantomeno di votare». Basta questa risposta per comprendere le reali possibilità delle due uniche candidate al di fuori della rarefatta atmosfera d’alcuni quartieri esclusivi della capitale. Dal punto di vista del messaggio e del coraggio l’esempio di Frozan Fana e Shahla Ata resta comunque esemplare.
La 40enne Fana, vedova del generale Abdul Rehman nominato ministro dell’Aviazione dopo la caduta dei talebani e misteriosamente assassinato nel 2002 sa bene di rischiare una fine simile a quella del marito, sa bene che un sicario potrebbe presto bussare alla sua porta. Soprattutto se continuerà, come ha in questi mesi, a invocare «un governo formato al 50 per cento da donne». In Afghanistan è già successo ad altre donne coraggiose colpevoli di presentare programmi musicali alla televisione, di servire nella polizia o di esser state elette in un consiglio provinciale. Ma Fana non si tira indietro. «La Costituzione prevede che tutti gli afghani possano candidarsi», risponde a chi le chiede il motivo della sua scelta. Nei comizi, invece, spiega ai pochi aficionados di volersi battersi per un Paese sovrano in cui regnino «pace, sicurezza e libertà di stampa».
La rivale Shahla Ata si spinge, se possibile anche più in là, supera tutti i limiti del rigido codice afghano. Allegra ed esuberante Shahla sfoggia un trucco scintillante, esibisce unghia laccate di un rosa shocking capaci di far inorridire i sostenitori della tradizione e infuriare i nostalgici dei talebani. Ma dietro quel trucco c’è lo stesso retaggio della rivale Fana, il privilegio di esser cresciuta in una famiglia benestante che le ha garantito una laurea in psicologia, un dorato esilio durante il medioevo talebano e lunghi anni di permanenza negli Stati Uniti. Esperienze che l’hanno segnata e ispirata. Esperienze che Shahla sogna di condividere con tutte le sue connazionali. Esperienze che nel suo messaggio elettorale si traducono in uno slogan semplice e inequivocabile. «In questo Paese per secoli il popolo ha messo alla prova i propri uomini, e per secoli non ha ottenuto nulla.

Perché non provare a cambiare e vedere cosa sono in grado di fare le donne?».

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