E fare una Mostra più corta?

Settembre, andiamo, è tempo di migrare. Ma, prima di lasciar gli stazzi i giornalisti fan consuntivi. Da domani faranno quasi insieme pronostici e bagagli.
Ora molti sono quasi sereni, convinti che La terra degli uomini rossi di Marco Bechis sia l’atteso grande film italiano, parlato in portoghese, recitato da indios. Multietnicità, oh yes...
A tre giorni (venerdì) dalla fine dei film in concorso, la Mostra, come il film di Bechis, è più estesa che intensa.
Nella carestia hollywoodiana; nella decadenza francese (ma perché prendere Inju di Barbet Schroeder, scartato da Cannes?); nell’autarchia tedesca da ritenzione (il meglio se lo tengono per Berlino), il direttore della Mostra avrebbe dovuto ridurre i giorni della Mostra (dopo il tracollo di Vivendi, Berlino lo fece).
Ma poteva farlo? Probabilmente no.
Così costretta, la Mostra ha arruolato di tutto un po’, salvo Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee, presumibilmente inguardabile se escluso anche da una compagine di ripiego.
Del resto, da nomi nuovi o ignoti al pubblico, è comunque scaturito un programma che, rispetto al 2007, zoppica solo dal lato del glamour; sul fronte del Pacifico i cino-coreani sono stati rimpiazzati da giapponesi, più in età e più seriali. Ma forse c’era solo quello in giro.
Si sa: i film sono specchi dei popoli e i festival sono specchi dei film. Ma non se ne producono abbastanza - in mezzo mondo è recessione - e quelli che si producono sono ambiziosi a parole e velleitari nei fatti. Dire grossi festival (Venezia, Toronto, Roma, Berlino, Cannes) è dire troppi festival.
Peggio. I grossi festival aspirano all’ipertrofia.

Cannes ha progettato un nuovo palazzo del cinema, il terzo in sei decenni, con una sala da quattromila posti.
L’altro giorno anche Venezia ha posto la prima pietra del nuovo palazzo, il secondo in sette decenni e mezzo, con una sala da duemilacento.
Triste sopperire a minor qualità con maggior quantità.

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