Ecco perché le donne si mettono a piangere anche se comandano

Perché noi donne dobbiamo sempre farci riconoscere e criticare? È mai possibile strumentalizzare ancora le lacrime per ottenere il consenso? Abbiamo davvero faticato per conquistare le pari opportunità, eppure continuiamo a usare la pancia (e dintorni) quando non abbiamo la lucidità e le ragioni per giustificare i nostri comportamenti. Che, a loro volta, non sempre seguono la doverosa linearità, ma sono suggestionati e deviati da argomenti, sovente inconfessabili, e per di più fuori dal tema in discussione.
Per esempio, le fascinose ministre pentite e piangenti, nel contestare il premier, grazie alla generosità del quale hanno potuto rivestire di dignità la loro fantastica ma pur sempre precaria bellezza, si sono dimostrate incapaci non tanto di gratitudine quanto di coerenza. Col ruolo istituzionale e con la dignità personale. L’ultimo caso è Stefania Prestigiacomo, il ministro dell’Ambiente che ha annunciato in lacrime il suo strappo dal Pdl.
Un ministro, soprattutto se donna (perché consapevole che, ancora, noi dobbiamo dare e dire più degli uomini) non si deve lagnare di non essere abbastanza tutelata, né può piangere per giustificare una sua decisione. Queste sono scuse pelose, che meriterebbero una rigorosa e ampia ceretta all’onestà dei pensieri. Il problema che parecchie donne ancora hanno in questa società, forse giustamente non pronta a considerarle davvero alla pari degli uomini, è il non essere capaci di rinunciare a sfruttare il positivo e il negativo della femminilità, per superare l’impasse del ruolo professionale.
Dalla cameriera, alla professoressa, alla professionista, per moltissime di loro nella gerarchia dei valori viene prima il figlio, poi l’uomo di riferimento, poi il proprio mal interpretato orgoglio, poi il denaro e, infine, il lavoro.
Tante, dichiarano di essere disposte a tutto per la carriera, e chi le ascolta in buona fede suppone che la disponibilità sia al sacrificio personale e alla fatica; tuttavia in realtà poi dimostrano di avere la predisposizione a un’infinita gamma di compromessi, anche con se stesse. Dopo di che, ottenuto l’ambito posto, alcune strumentalizzano l’essere femmina facendosi scudo, per esempio, di una gravidanza. Con buona pace dei doveri professionali. Che vengono altrettanto postergati quando l’uomo scelto pone loro inopportuni - ma ascoltatissimi - aut aut.
Altre hanno un’esagerata autostima e una malintesa interpretazione della dignità, tali da farle decidere di troncare il rapporto lavorativo se i colleghi non ne condividono il pensiero. Altre ancora frignano e si lamentano, convinte che esibire debolezza susciti l’istinto protettivo degli uomini. Altre, infine, come piccole bimbe viziate, fanno i capricci e strillano per avere ciò che non hanno voglia di ottenere con l’indispensabile sacrificio. Una grandissima parte poi, terrorizzata dall’impopolarità e dalle critiche che una decisione può suscitare nel territorio lavorativo, accompagna la mannaia, pronta ad abbattersi sui colleghi, con singhiozzi e lacrime da coccodrillo seduttivo.
Ecco perché non tutte le donne sanno acquisire la stima popolare; ecco perché le donne non sanno creare centri di potere; ecco, anche, perché non sempre riescono a solidarizzare tra loro.
È impensabile, infatti, che chi si ammazza di fatica per rispettare esigenze familiari e doveri di lavoro, possa stimare quelle che, con furbizia e smorfiette, salvano mediocremente capra e cavoli.
È assurdo che nel XXI secolo, con la pari dignità sociale, sopravvivano donne che, per paura di perdere l’uomo al fianco, mandino a carte quarantotto il lavoro e tutti quelli che da questo dipendono. Ancora peggiori sono quelle che, per non perdere la faccia con il maschio dal quale sono tenute in pugno, e disprezzando la dignità che ogni donna dovrebbe tutelare a favore di tutto il genere femminile, si lasciano emotivamente ricattare, disonorando così se stesse e il posto di responsabilità ricoperto.
Come diceva Simone de Beauvoir, donne non si nasce, ma si diventa. Il diventarlo significa, anche, vivere con onestà un ruolo che non deve approfittare della fragilità (o della nobiltà) del maschio, per nascondere le proprie inettitudini.
Ma non deve neppure sfruttare la lacrimosa debolezza femminile, per accalappiare l’approvazione di entrambi i sessi.


Una donna autentica deve poter rispondere solo a se stessa, trattandosi e comportandosi da persona responsabile, prima ancora che da donna. Con serietà e fierezza, anche quando è necessario contrapporsi. Una donna così, sa dove e quando può piangere con pudore e sincerità.

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