di Roberto Fabbri
Non è privo di significato che i complimenti più calorosi a Hugo Chavez, confermato per la quarta volta consecutiva dagli elettori alla presidenza del Venezuela, arrivino dai leader di regimi che si guardano bene da chiedere ai loro concittadini una legittimazione democratica. Così Raul Castro scrive in tutta serietà nel suo messaggio al vincitore «mi complimento con te per questo trionfo storico, che dimostra la forza della revolucion bolivariana e il suo indiscutibile sostegno popolare» (mentre a Cuba si «vota» la lista unica del partito comunista da mezzo secolo), l'Iran di Ahmadinejad (quello che ha fatto massacrare l'opposizione nelle piazze) esprime «compiacimento per il trionfo», e lo stesso fa la Cina (proprio quella di Tienanmen e della repressione feroce in Tibet), rossa ma senza vergogna. E tuttavia, resta il fatto che Chavez ha vinto per davvero. Anche se ha approfittato di un quasi monopolio a suo favore nei media venezuelani e se ha fatto pesare la minacciosa presenza della sua milizia personale (più di centomila uomini armati), un tipico tratto di ogni dittatura. Il sostegno popolare di cui parla Castro senza averlo, Chavez ce l'ha sul serio. Questo, oltre al mare di petrolio su cui galleggia, gli consentirà di resistere anche sulla scena internazionale, dove è una delle più fastidiose spine nel fianco degli Stati Uniti e dove lotta per non farsi soffiare dal rampante Brasile il ruolo di guida politica dell'America Latina «progressista». Resta da vedere se la malattia che lo rode gli concederà tempo. Chavez assicura di essere guarito dal cancro per cui è stato più volte operato a Cuba, ma il suo aspetto non convince.
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