L'hanno premiata, elogiata, portata in palmo di mano sul palcoscenico: lei, donna coraggio, donna che difende i diritti delle donne in un Paese dove donne e diritti sono abusati ogni giorno. Maria Bashir è diventata il simbolo dell'Afghanistan che lotta per uscire dal medioevo della violenza talebana e tribale, primo procuratore generale di sesso femminile nella storia del suo Paese. La sua carica ha fatto scalpore, il suo lavoro a Herat dal 2006 è stato sotto i riflettori del mondo e dei media come una favola bella: lei minacciata, insultata, che vive sotto scorta, ma che combatte senza paura contro la corruzione, il crimine, gli abusi quotidiani e familiari sulle donne. E però la fine della favola sembra più cinica dell'inizio: c'era una volta Maria Bashir, sì, la prima procuratrice generale afghana, che però è anche quella che imprigiona più donne nel suo Paese, e proprio per quei «crimini morali» che per l'Occidente sono i più odiosi, e i più difficili da estirpare. La donna che accusa le donne. Che le manda in galera. Che è più dura degli uomini.
Il record choc di Maria Bashir è stato rivelato dal Times, ma i numeri sono del ministero dell'Interno afghano: la provincia di Herat è quella dove si trova più della metà delle donne finite in carcere con l'accusa di «zina», cioè per rapporti sessuali fuori dal matrimonio (pre o extra). Sono 101 «colpevoli» su 172 in tutto il Paese, oltretutto in un'area che non è molto popolosa (a Herat abita il 20 per cento della popolazione totale). Una sproporzione. In tutto nelle prigioni della provincia sono rinchiuse 136 donne: 101, appunto, per adulterio. Non solo. Anche un terzo delle afghane condannate per omicidio (78 in tutto) sono state perseguite proprio da Bashir. Insomma le difende o le fa arrestare? È una paladina dei diritti femminili, ma solo a intermittenza? Chi si aspettava intransigenza, o almeno comprensione per le «altre» ha sbagliato i conti. Come spesso succede quando una donna giudica le altre donne. Da parte sua Bashir ha risposto al Times con toni poco combattivi: si è sorpresa, ma ha dato la colpa all'influenza culturale dell'Iran, che sta proprio al confine con la provincia di Herat. E ha aggiunto: «Dovremmo essere tutti felici quando rendiamo giustizia. Fa parte del nostro lavoro». Ma certo non è per questo genere di «rendere giustizia» che Bashir è stata tanto applaudita, non è per le condanne alle «adultere» (magari donne scappate da famiglie violente, che per vendetta poi le accusano di «zina», magari donne stuprate o sequestrate) che Michelle Obama e Hillary Clinton l'anno scorso le hanno dato il premio «Women of Courage» (definendola «campionessa della trasparenza giuridica e dei diritti femminili, esempio della resistenza delle donne afghane»), o che Time l'ha inserita nella lista delle cento signore più influenti del pianeta.
È un luogo comune che le più severe con le donne siano proprio le femmine (non solo al potere), ma come si spiega la trasformazione di Bashir da guerriera per la giustizia a persecutrice delle più deboli? Bashir che lottava contro l'orrore delle spose bambine; che sotto i talebani si inventò una scuola clandestina per le ragazzine, che andavano a casa sua con carta e penna nascoste nelle borse della spesa; che ha dovuto mandare un figlio a studiare in Europa e deve tenere gli altri due segregati in casa per paura di attentati; che vive sotto minaccia di morte. E che poi, quando si trova davanti una donna come «colpevole» è più intransigente dei colleghi maschi. E fa sembrare la favola una banalità: una donna che non perdona mai, alle altre donne.
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