Fa così ridere da costringerti a piangere

di Vittorio Sgarbi

Qualunque scrittore arrivasse a Buenos Aires negli anni Trenta del ’900 veniva attratto, come una necessita culturale, dal salotto di Victoria Ocampo, fondatrice e direttrice della rivista Sur, che vedeva tra i suoi protagonisti Jorges Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabato e Julio Cortazar. Witold Gombrowicz attiro subito curiosità nel mondo letterario argentino perché fu l’unico scrittore a non recarsi mai nel salotto buono della Ocampo: «Secondo me - dice - quel poco di notorietà che ho acquistato in Argentina mi è venuta non in quanto autore, ma per essere stato l’unico letterato straniero a non recarsi in pellegrinaggio dalla signora Ocampo. Ero convinto che le mie opinioni, il mio modo di essere, le mie opere, le sarebbero apparse eccessivamente eccentrici». E infatti, quando uscì in Argentina il capolavoro di Gombrowicz, Ferdydurke, la rivista Sur non pubblicò alcuna recensione del libro. Gombrowicz incontrò altrove Borges e tutto il mondo letterario della Ocampo, ma i rapporti evidentemente si manifestarono sotto la forma dell’antagonismo: due mondi inconciliabili. E le ragioni non sono solo da ricercare nella diversità della letteratura, ma proprio nella convinzione profonda di Gombrowicz che la letteratura sia un’emanazione delle energie del corpo, oltre che della mente, e che quindi uno scrittore lasci nella pagina qualche cosa che ha a che fare con la sua insofferenza e il suo malessere. La pagina allora non è un luogo incontaminato rispetto a una vita che può anche essere peccaminosa. Una convinzione questa che ribalta il precetto di Marziale «Lasciva pagina, sed vita proba». Per molti scrittori accade il contrario: «Lasciva vita, sed pagina proba». E in un certo senso non lasciva, ma certamente diversa è la vita di Borges, preso come il riferimento di una letteratura rinchiusa in un cristallo, integra, incontaminata, e in questo senso straordinariamente apprezzabile; ma, proprio per questa ragione, tanto lontana dalla contaminazione che invece rende così viva l’esperienza letteraria di Gombrowicz.
Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto è la pagina meravigliosamente organizzata di una vita dove il dolore è il culmine di un’esperienza fondamentale per la formazione della coscienza umana. Non c’è coscienza senza dolore e non c’è letteratura senza coscienza di questo dolore. La filosofia diventa per Gombrowicz il culmine di un momento edificante per lo spirito nell’istante di maggior decadenza del corpo, quasi a preservare il ricordo di una vita che svanisce nel nulla, che ritorna al nulla dal quale proviene. E questo movimento della vita non può essere mutato con alcuna finzione della letteratura, e Gombrowicz si schiera contro tutto ciò che nella finzione ricerca il cambiamento di una realtà che è come una piaga: «Uno scrittore che si consideri padrone della realtà è cosa triste e ridicola (e ne rido)» \.
Nel dramma che è la vita allora e che la letteratura rappresenta si svolge il pensiero di Gombrowicz, che nel suo Corso di filosofia tocca il culmine di una ricerca condivisa sotto forma di una paideia minima, per tutti coloro che vogliono vivere. E cosa è la filosofia insegnata nelle scuole se non l’educazione a un dolore ineliminabile e alla meraviglia per un mondo che ci è dato in eredità?
Gombrowicz ci spinge così a lottare contro l’inautenticità della vita e della letteratura, anche se dovessimo sfidare giganti della fantasia come Borges. Non è un caso allora che il Corso parta dalle riflessioni sulla filosofia di Cartesio criticando nel filosofo francese il suo aver reso la coscienza la realtà basilare dell’universo e l’aver fatto del dubbio il metodo dell’eliminazione della realtà dell’oggetto esteriore. Da Cartesio a Sartre, passando per Kant e Schopenhauer, Gombrowicz con la forza di chi ha poche ore da vivere e nulla da perdere sorride dei maestri del pensiero che hanno allontanato il soggetto e l’oggetto, l’uomo dalla vita e dal dolore. Forse solo Schopenhauer nella sua visione tragica della vita è preservato dalla critica di Gombrowicz, quantomeno perché il pensiero del filosofo tedesco parte dalla sensibilità e non dal dubbio di una coscienza. Ma la rinuncia alla vita che propone Schopenhauer per uscire dall’imbroglio della volontà di vivere e dalla tragedia irrinunciabile della vita appare a Gombrowicz una soluzione debole. Proprio lui che nei giorni di dettatura all’amico Dominique Roux e alla moglie Rita Labrousse del Corso di filosofia chiedeva con insistenza la morte per non sopportare più quel dolore terribile della malattia. E c’è un qualcosa di vagamente comico nel finire per resistere alla malattia uccidendo i filosofi che hanno allontanato la vita dal pensiero. E l’attacco meglio preparato lungo tutta una vita sembra essere quello nei confronti di Sartre e delle varie forme di esistenzialismo che prendono vita dallo scontro tra Hegel e Kierkegaard. Il «codardo Sartre» cerca in tutti i modi un fondamento logico all’esistenza dell’altro, ma finisce per cadere nell’errore di Cartesio e richiude i propri principi logici in una impossibilità di esistenza dell’altro, benché questa sia evidente a tutti.
Se l’esistenzialismo naufraga nella vita, questo accade perché la filosofia stessa viene superata dalla vita: l’evidenza dei fenomeni, rispetto all’intellegibilità dei principi.

Il Corso di filosofia diventa così il vero suicidio di Gombrowicz: l’aver abbandonato il dolore della vita per l’ironia del pensiero, tanto più distante dal dolore quanto più intricato e paradossale. Sembra essere questo allora l’ultimo messaggio per i suoi lettori: uscite per il mondo liberi cercando la vita autentica e non fingete, se non il dolore che sentite per voi, come quello sentito nella carne degli altri.

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