«Faccia d’angelo» un guascone con punti deboli

La polemica c’è tutta, inevitabilmente. E si ripete come ogni volta che viene portata sullo schermo, grande o piccolo, la storia di qualche bandito, si tratti di quelli della Magliana o di Renato Vallanzasca. Non rompe lo schema nemmeno Felice Maniero, ben ritratto da Faccia d’angelo, la miniserie con Elio Germano nel ruolo del protagonista prodotta dalla Goodtime con la regia di Andrea Porporati (Sky Cinema 1, 12 e 19 marzo, ore 21,10). In queste biografie di assassini e malavitosi, il romanzo domina sempre sul crimine. Lo si racconta attraverso il carisma e le doti da leader che s’impongono sul resto della banda, la passione per il lusso e le belle donne. Le azioni violente restano sullo sfondo, con il risultato di diluire la scia di sangue che quelle azioni hanno provocato. E la memoria, storica ma soprattutto esistenziale, ne soffre. Normalmente la replica dei produttori sottolinea che si tratta di una fiction e non di un documentario, ma le rispettive posizioni restano invariate. Forse uno sforzo in più l’ha fatto Faccia d’angelo, non tanto rendendo antipatico «Il Toso» così ben incarnato da Germano, con il ghigno giusto e il dialetto a prova di accento veneto. Quanto nel dare adeguato spazio all’impegno degli investigatori che comprendono la necessità d’incriminarlo per mafia anziché per i singoli reati, rapine o sequestri che siano, anche con l’uso delle intercettazioni e grazie a un ispettore più ostinato degli altri. E poi in una certa asciuttezza narrativa, capace di ridurre al minimo eroismi e eccessi spettacolari. L’ex figlio di contadini accumula ville e Ferrari nell’ambizione del riscatto per sé e la madre, una Katia Ricciarelli a suo agio nelle terre natìe.

Ma oltre che nei dissensi interni alla banda, i cui capibastone scalpitano in cerca di gloria, il punto debole del boss sta proprio nel rapporto con la madre e il figlio, autori di domande che resteranno senza risposta. Loro non si ingannano con qualche guasconata.

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