La «fame culturale» e la bulimia pseudoculturale

Caro Granzotto, mi dica, dobbiamo festeggiare il ripristino delle sovvenzioni per esaudire la «fame di cultura» che divora l’Italia? O rassegnarci a questo ennesimo cedimento alla demagogia piazzaiola?
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Per me, buona la seconda, caro De Cataldo. Solleva un po’ lo spirito questa «fame di cultura» che attanaglierebbe le viscere degli italiani, appagata con quanto ricavato da una nuova tassetta sulla benzina. Bene ancorché non culturale al quale nessuno è disposto a rinunciare, costi quel che costi. In pratica, gli affamati si sfameranno cacciando direttamente il dovuto dalle proprie tasche ogni volta che si fermano al distributore per fare il pieno. Bel colpo, Tremonti. Secondo motivo di rallegramento è che il neo ministro per i Beni culturali ha fatto sapere che il grosso del grisbì verrà impegnato per una sistemazione - si spera definitiva - di Pompei. Ciò significa che non andrà a foraggiare, o comunque foraggerà in modo minore, l’orpellistica culturale, le pseudo culture e la ganga che, con la scusa della cultura, ingrassa e se la spassa a spese di Pantalone. Bel colpo, Galan (voglio vedere chi avrà il coraggio di protestare, dopo tutto il can can sulle miserrime condizione in cui giace - per colpa di Bondi, poi, secondo i pirloni della sinistra - Pompei). Intanto mi chiedo, ma così, proprio en passant: come mai il più animoso paladino della cultura sovvenzionata, il direttore d’orchestra Riccardo Muti, s’è limitato a lanciare proclami senza che gli passasse per la capa di fare almeno un gesto di buona volontà (culturale), autoriducendosi di un tot le milionarie parcelle? Che gravano sul bilancio (culturale) degli enti lirici come un macigno? Ma che, niente niente, appartiene anch’egli alla gloriosa cerchia (culturale) dei «chiagne e fotti»?
Vede, caro De Cataldo, quello che chiedono i saziatori della «fame culturale» non sono le sovvenzioni alla cultura, ma all’ambaradam che vi prospera intorno. I Vespri Siciliani, che il Regio di Torino ha allestito per il Centocinquantenario, sono cultura coi fiocchi. Musica di Giuseppe Verdi, libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier. Per cento e cinquanta anni i Vespri sono stati rappresentati - e applauditi - nell’allestimento classico del melodramma: elmi di cartone, spade di legno, polli di cartapesta, perché quel che conta è la musica e il canto, non altro. Poi salta su il Regio che decide di cambiare tutto: non più ambientati nel Duecento, ma ai giorni nostri. Non più la rivolta del lunedì di Pasqua contro gli angioini (per far poi sventolare la bandiera aragonese, mica il tricolore), ma la strage di Capaci. Un allestimento scenico con carcasse di auto, macerie e balle varie costato una cifra più che ragguardevole. E voluto per sottolineare che, virgolette, «l’invasore che priva dell’unità e dell’identità nazionale non è lo straniero, ma il sistema dei media, la cattiva informazione; le armi di “distrazione di massa” che servono a realizzare quello che Pasolini aveva capito con una forza profetica, in enorme anticipo sui tempi: il fascismo culturale».

Ecco, caro De Cataldo, dove vanno a finire i finanziamenti per appagare la «fame culturale»: nell’orpellistica, nei costosi fronzoli, nelle frappole ideologiche e intellettuali che dilatano a dismisura i conti e riducono a musichetta di sottofondo il prodotto, quello sì culturale, di un genio come Verdi. Lo tenga a mente, quando farà il pieno al serbatoio della sua auto.
Paolo Granzotto

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