In fuga dalla famiglia

diIl mio libro intende presentare nel modo più chiaro possibile gli episodi della mia vita fino ai miei ventidue anni.
Hume saggiamente ha scritto: «Un uomo non può parlare a lungo di se stesso senza un minimo di vanità». Mi piacerebbe poter aggiungere che non ho mai conosciuto o saputo di qualcuno che riuscisse a parlare per cinque minuti di se stesso senza mentire. Questo se vogliamo ridurre la cosa in termini di statistiche. Un sorriso esagerato o una scrollata di spalle tra una frase e l’altra, o anche il tono della voce - anche se a volte inavvertitamente - faranno sempre in modo che «qualcosa rimanga non detta, o detta fin troppo». Anche se questo non è applicabile ad una storia scritta, seppure ci sia la possibilità di essere iperbolici o patetici, mi preme dire che sarò veritiero in modo più che ordinario in questa autobiografia. E qualche merito ci deve essere sicuramente nel dire la verità, perché è dura quando sei tu il personaggio protagonista della storia, e non sei affatto quello che si dice «un eroe morale». Sarebbe un buon punto di partenza assumere il principio generale che un ragazzo farebbe meglio a non scappare mai via da casa. Non è necessario aggiungere tutte le motivazioni che dovrebbero spingerci a non farlo. Potremmo ora metterci a fare della trita morale, sostenendo che un «monellaccio» non ha bisogno di andarsene in giro per il mondo a cercare guai, dal momento che non passerà molto che saranno questi a raggiungere lui, e che la casa è l’ultima fortezza costruita dagli uomini saggi per ripararci da frecce e dardi di un’oltraggiosa sfortuna. Perciò perché, ci si potrebbe chiedere - con una convinzione quasi travolgente per un adulto - il giovane fuggitivo si affretta così tanto inconsciamente a lasciare ciò che poi passerà tutta una vita a riconquistare?
Ora, avendo fatto il mio dovere nei confronti di qualsiasi ragazzo dall'animo inquieto che possa imbattersi in queste memorie ed essere influenzato dal mio esempio di vita vagabonda, mi affretto a dire che sono fuggito di casa alla matura età di undici anni e che non sono più tornato da allora. È però doveroso per entrambi - cioè me e la mia casa - dire che non stavo fuggendo dal migliore dei focolari. Mamma e papà erano morti, non avevo fratelli e sorelle - niente che somigliasse minimamente a un affetto familiare, ma più che altro l’opposto. Insomma, penso che se mi ritrovassi nelle stesse circostanze, beh fuggirei ancora. Ma spero che questa mia osservazione non induca il lettore distratto a pensare che io non provenga da una famiglia rispettabile. Se così fosse non sarei qui a scrivere queste righe. Rispettabile lo è diventata dal momento in cui ha preso piede questa autobiografia. A posteriori, la nostra «rispettabilità» è garantita dal fatto che ci sia uno scrittore di autobiografie in famiglia! Ma una volta stabilita una verità, è facile trovare molte prove che la confermino. Quando Keplero, per esempio, in virtù di qualche strana idea o intuizione, intuì che i pianeti si muovono su orbite ellittiche, fu facile poi - o sarebbe stato, per rendere questo paragone scientifico maggiormente corretto - trovare una mezza dozzina di prove a supporto di questo nelle proprietà delle sezioni coniche. Perciò la rispettabilità della mia famiglia può ora fortunatamente essere provata in molti modi. Anche da un matematico, come per le leggi di Keplero. Anzi, queste prove potrebbero essere stabilite con una serie di numeri e cifre. Perché stiamo parlando di una famiglia ricca. Questo è senza dubbio un vantaggio per chi scrive un’autobiografia, dal momento che di solito un’autobiografia inizia con un protagonista che nasce da «genitori poveri ma onesti».

Mentre io, con un po’ di orgoglio e candore, posso vantarmi, a oggi, di essere, in termini pecuniari, «il più povero» della mia famiglia.

*da «Vagabond Adventures», 1870, traduzione di Nicola Manuppelli. Da lunedì sul sito Satisfiction.me diretto da Gian Paolo Serino.

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