Galimberti cittadino della «Repubblica» del copia-e-incolla

Caro Granzotto, con malcelati risolini di voluttuosa soddisfazione di Lilli Gruber che lo ospitava per (s)parlare di Karol Wojtyla, l’altra sera Umberto Galimberti ha ripetutamente ostentato il suo pollice verso su tanto Papa, inemendabilmente reo, a suo dire, di voler subordinare la ragione alla fede. Il filosofo, com’è noto assai abile nel praticare l’arte del «copia e incolla», appare però meno ferrato in quella del documentarsi. Ricorrendo, a esempio, alle fonti. Egli ha infatti trascurato punti chiave del Catechismo che insegna come l’uomo, ancorché tra molte difficoltà, con la sola ragione può con certezza conoscere Dio quale origine e fine dell’universo e come sommo bene. Però, stante che non può entrare da solo nell’intimità del Suo mistero, Dio ha voluto illuminarlo con una Rivelazione che altri non è se non Gesù in carne e ossa. Certo, Galimberti non è tenuto a credere al dettato della Chiesa, ma ciò non gli dà per questo il diritto di ometterne le travi portanti che la sostengono. Tertium non datur: o Galimberti tali fondamenti li ignora negligentemente, o, peggio ancora, finge di non conoscerli. Sia come sia, il suo papa Wojtyla, più che «santo sùbito», è «santo subìto».
Pesaro

Ben detto, caro Pantaleoni. Però tenga conto che il pensiero e quindi le opinioni di Galimberti non esistono in quanto le idee non gli nascono originali, ma vengono importate - sciolte, a pacchetti, o in formato famiglia - da cervelli altrui e, nella medesima forma, riproposte col «copia-incolla». Il «dice Galimberti» o «scrive Galimberti» sono quindi un nonsenso. A meno che lo scrivere non si riferisca al testo di una cartolina, a un «Saluti e baci» e anche in quel caso resta il dubbio. Dopo che il Giornale rivelò la sua propensione al plagio, l’opera del pensatore a sbafo è stata passata al setaccio risultandone che non un rigo della sua sovrabbondante pubblicistica può dirsi davvero originale. Egli può cambiare un lemma - se Alain Ehremberg in La fatica di essere se stessi scrive «la contrapposizione permesso/vietato», in I miti del nostro tempo il Galimberti scriverà «la contrapposizione permesso/proibito» - ma l’infantile trucchetto ovviamente non declina l’entità del plagio che resta assoluto e, per la sua spavalda sfrontatezza, anche garibaldino. Cose che lei sa bene, caro Pantaleoni, come purtroppo sa che in una società come la nostra il barare al gioco non è di impedimento a una brillante carriera. Per aver copiato la sua tesi di laurea il ministro tedesco della Difesa, zu Guttenberg, s’è dovuto dimettere. Pur avendo taroccato le pubblicazioni che gli hanno consentito di accedere alla cattedra universitaria, il Galimberti seguita bellamente a insegnare, senza che alcuno abbia sollevato obiezioni. Ma il nostro è il Belpaese, è la vigna dei grulloni, dove ogni uccello fa il nido. Non stupisce, al contrario, che alla Repubblica Galimberti, annoverato fra le prime firme, seguiti a stare a cuore: d’altronde il quotidiano di Largo Fochetti pare abbia un debole per plagiatori e virtuosi del «copia-incolla». Simpatie che vanno dall’indimenticato Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita al pataccaro Ciancimino il Giovine, elevato a icona dell’antimafia prima dal procuratore Antonino Ingroia, indi dai republicones senza distinzione di ordine e grado.

Per tornare al nostro Galimba, come può pensare, caro Pantaleoni, che egli si premuri di documentarsi prima di esprimere un giudizio? Sia detto senza intenzione d’offendere e a semplice uso di metafora, forse che il borseggiatore si documenta, ispezionandone preventivamente il contenuto, prima di sfilare un portafogli?
Paolo Granzotto

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