Guerra di Libia, ci sono troppe cose che non quadrano

Caro Granzotto, avverto, da semplice lettore-spettatore dei fatti, che in Libia qualcosa non va. Ma non riesco a capire che cosa e perché. Ora è chiaro che non si tratta di una missione umanitaria ma dell’appoggio militare ai ribelli. Eppure qualcosa mi sfugge. Lei ci vede più chiaro?
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No, non ci vedo più chiaro, caro Franzoni. E quel che aumenta la mia inquietudine è che sulla Libia è calato, per la prima volta in simili circostanze, un blackout mediatico che non può non destare qualche sospetto. Sì, certo, ci sono inviati a Tripoli e a Bengasi, ma per troppi anni ho fatto il corrispondente di guerra per non sapere che una volta che ci sei dentro il quadro generale inevitabilmente ti sfugge. E se alla sera non ti sintonizzavi sulla Bbc, dell’andamento del conflitto non potevi sapere nulla. Come inviato di guerra Ernest Hemingway partecipò allo sbarco in Normandia. Ma non poté che raccontarlo visto dall’interno del suo mezzo da sbarco. Scrisse del centinaio di soldati che si trovavano a bordo. Di ciò che accadeva sulle spiagge Juno, Gold, Omaha, Sword e Utha e più in generale di come procedeva lo sbarco, non potendo sapere niente, niente riferì. Le cose, ovviamente, non sono cambiate e dunque tutto ciò che ci arriva dalla Libia sono brandelli di guerra, fatti isolati o voci. Manca poi la regina dell’informazione d’oggi: l’immagine. Mancano i breefing degli stati maggiori. Si è parlato di annientamento dell’aviazione libica, però nessuno ha visto un aereo al suolo, distrutto. Si è parlato di violenti scontri alle porte di Bengasi, ma di quelli non è filtrato un solo scatto. Si disse di un caccia francese abbattuto. Nessuna conferma e nessuna smentita. L’unica fotografia giunta nelle redazioni dei quotidiani e dei telegiornali è stata quella della carcassa di un aereo americano. Schiantatosi per un guasto al motore, secondo la versione ufficiale presa subito per buona senza che qualcuno si preoccupasse di controllarla. Mancano anche le immagini dei civili che noi siamo stati chiamati a difendere, le solite e retoriche: il bambino che piange spaventato, la madre che corre a ripararsi dietro un muretto, il carretto sovraccarico di suppellettili e trainato, in genere, da un asinello tutto pelle e ossa... Lo stesso dicasi delle città bombardate, dei movimenti di truppa dell’uno e dell’altro campo. Perfino dei capi dei rivoltosi non si conosce la faccia. Assenti, poi, gli ufficiali delegati a illustrare alla stampa l’andamento delle operazioni, con la loro bella carta geografica alle spalle, i grafici e le cifre. Silenzio. Un minuto di traccianti nel cielo nero della notte, un Gheddafi, almeno lui, che arringa le folle e stop. Naturalmente non siamo qui per pensare male, ben sapendo che così commetteremmo peccato, ma l’impressione è che s’intenda coprire qualcosa che si ritiene prudente tener nascosto. Non era mai successo, mai l’informazione e il barnum mediatico fu tagliato fuori in maniera così decisa dalla realtà dei fatti. Quando in Irak gli Stati Uniti tentarono di farlo, furono travolti dalla protesta e dovettero cedere. Per la Libia, al contrario, il silenzio delle grandi testate giornalistiche e televisive copre il silenzio dei vertici politici e militari dei «volenterosi».

Perché? Perché non dobbiamo sapere cosa ha combinato e sta combinando l’aviazione di Sarkozy? Perché non si conosce il numero delle vittime relative alla guerra fra Gheddafi e i ribelli e di quelle causate dall’intervento dei «volenterosi»? E cosa vuol dire, dal punto di vista di un intervento umanitario, di una «azione militare cinetica», come l’ha definita Barack Obama, la dichiarazione (anonima) del vertice dei ribelli: aspettiamo, per attaccare Sirte, che l’aviazione della Nato ci abbia spianato il terreno? È questo «spianamento» che intendeva Giorgio Napolitano ammonendo che «il mondo non poteva assistere senza reagire alle molte vittime e alle distruzioni massicce inflitte dal leader libico Gheddafi alla sua stessa popolazione»? (E anche qui, caro Franzoni, silenzio. A domanda non si risponde).
Paolo Granzotto

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