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Hillary, la fuoriclasse sconfitta dall’invidia

A Denver, Colorado, sul palco della convention democratica, c’è un solo protagonista vero, che suscita sentimenti di rancore e fastidio, di grande amore e perciò di rabbia cocente per come sono andate le cose. Non è il key-note speaker, non darà la linea del partito, non è l’aspirante first lady, che è stata regolarmente chiamata a dire quanto sia lui un buon marito e un buon padre, e quanto lei lo ami; non è nemmeno il candidato alla presidenza, Barak Obama, rockstar che un pezzo d’America ha sognato e sogna come il liberatore, non si capisce da che cosa, soprattutto guardando marciare i carri armati di Putin. Il protagonista, che ha parlato quando in Italia era già notte, si chiama Hillary Rodham Clinton, non c’è quotidiano anche antipatizzante che non lo sottolinei, non c’è delegata alla Convention che non lo dica, magari con le lacrime negli occhi.
La sua presenza è tanto ingombrante che prima di promettere fedeltà a Obama, i delegati dovranno votare anche per lei. È un atto senza conseguenze, ma è pesante da digerire, è la catarsi che servirà a convincere che il partito è unito, a far tirare un sospiro di sollievo al candidato, apparso molto stanco, comprensibile, irritato, i sondaggi ristagnano. Poi si vedrà se nell’urna della situazione non ci saranno comunque voti per lei, o, per questo bisognerà aspettare il primo martedì di novembre, se non saranno in molte le elettrici che faranno come quella di un recente spot che dice in estrema sintesi «o Hillary o McCain», dunque McCain.
Su questa donna eccezionale ha pesato sempre come un masso l’invidia e l’antipatia che generano calunnia continua. Ha rotto il mito della first lady non perché era elegante, non perché era la consigliera occulta, ma perché è stata una partner di Bill Clinton, e poi un ottimo senatore a New York. Durante la sua campagna elettorale, cominciata troppo presto e durata troppo a lungo perché non finissero i soldi e l’energia, ha proposto l’unico modello di un’America governata dai democratici senza che finisca male: moderato, attento ad evitare il populismo e le unghiate dei radicali. Credo che a nessun aspirante candidato sia stata riservata una così alta muraglia di misoginia, in patria e nella sconsiderata Europa.

Adesso si ritrovano con il vice più scemo del West, gli appelli del moribondo Kennedy, la prospettiva di un candidato così inesperto e ondivago che all’ultimo momento potrebbe spaventare anche gli elettori del partito. Avrei voluto nel tempo della mia vita una donna come lei a governare la più grande democrazia del mondo. Peccato, ma non solo per me.

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