È uno strano articolo quello pubblicato da Marcello Veneziani ieri sulle pagine de Il Giornale. Sulla mia amministrazione di Roma da un lato dice «non sarebbe bello ora fare processi, dimenticando le difficoltà gigantesche e un momento nazionale drammatico», ma dall'altro lato i processi (...)
(...) li fa, eccome, mescolando plausibili motivazioni politico-culturali con i soliti luoghi comuni sulla nostra amministrazione, letti forse di sfuggita sulle pagine dei quotidiani di sinistra. Il mio amico Marcello, a quanto pare, non sa che la mia amministrazione ad esempio ha subito un'inchiesta di Amnesty International e ha avuto momenti di aspra tensione con movimenti cattolici importanti come Sant'Egidio, per non tirarsi indietro rispetto al problema drammatico dello sgombero degli accampamenti nomadi abusivi. Veneziani evidentemente non sa che, insieme al museo della Shoah, una delle tante incompiute ereditate da Veltroni, abbiamo dato vita alla casa del ricordo dedicata agli esuli istriano-dalmati e al dramma delle Foibe. Eppure dovrebbe sapere che noi siamo stati molto criticati dalla sinistra per aver esteso i «viaggi della memoria» degli studenti romani da Auschwitz per ricordare la Shoah, all'Istria per far divulgare l'eccidio dimenticato delle Foibe, fino a Praga e Berlino per tenere vivo il ricordo dei crimini commessi dal comunismo sovietico contro l'Europa. Se poi siamo ancora nella logica del «non siamo antisemiti, però...», ho una sconvolgente notizia per Veneziani e per chi si porta ancora appresso questi pregiudizi: la stragrande maggioranza dei componenti la comunità ebraica - legati come sono ai valori della tradizione, della famiglia - sono persone tendenzialmente di destra, che solo la sopravvivenza di vecchie barriere nostalgiche hanno tenuto lontano dalle nostre file. A tutto questo potrei aggiungere le celebrazioni del 140º anniversario di Roma Capitale e il 150º dell'Unità nazionale, tanto rigorose dal punto di vista storico culturale da annoverare proprio Marcello Veneziani come il principale consulente (pochissimo pagato) dell'indirizzo culturale di queste celebrazioni. Poi le politiche familiari che ci hanno portato a essere il primo comune italiano ad applicare il Quoziente familiare e a rifiutare nettamente i registri delle coppie di fatto, le politiche per la vita che ci hanno indotto a creare «il giardino degli angeli» ovvero il cimitero dei bambini mai nati, gli incontri e gli spettacoli pubblici fatti ogni anno per il Natale di Roma e per il Carnevale romano che ci hanno fatto accusare dalla sinistra di retropensieri di impostazione ipertradizionalista, l'illuminazione e il restauro dei Fori imperiali e infine il progetto di demolizione e ricostruzione di Tor Bella Monaca, per creare una moderna Garbatella ovvero un quartiere popolare a perfetta dimensione comunitaria.
Da queste spiegazioni di carattere personale e romano, passo a considerazioni di carattere generale. Il principale motivo per cui la destra non si riaggrega è la malattia del settarismo, più volte denunciata da Veneziani, che scade nel cannibalismo, ovvero nel piacere di aggredire chi di noi è in difficoltà. E di questo cannibalismo l'articolo di Veneziani è un, probabilmente involontario, esempio. Di quale ricostruzione della destra vogliamo parlare se ogni volta invece di aiutare chi tra noi è in difficoltà cerchiamo di ergerci a giudici implacabili per attaccarlo? Prendiamo esempio, invece, dalla sinistra. Le loro faide interne sono forse peggiori delle nostre, gli odi ideologici che li separano sono violenti, ma all'esterno quando si devono misurare con noi si ritrovano in branco e fanno muro. Questo è uno dei motivi, forse il principale, per cui la sinistra al momento dello scontro, tende a essere superiore alla destra. Per il resto, esauriti gli obblighi istituzionali che mi hanno costretto a concentrarmi con spirito di servizio per cinque anni solo sulla Capitale d'Italia, sono pronto al dibattito politico culturale. Continuo a pensare che un unico grande partito del centrodestra sia meglio che frantumare il nostro schieramento in tante sigle, ma ovviamente ci deve essere spazio per tutti e le persone che provengono dalla destra non debbono essere considerate dei «figli di un dio minore». Soprattutto è importante comprendere una cosa: il più fondamentale degli insegnamenti della nostra tradizione comunitaria e antipartitocratica è quello di amare prima l'Italia e le sue città e poi la propria setta politica o il proprio partito. La destra sociale, nazionale, popolare ha senso solo se utile a servire il Bene comune dell'Italia, soprattutto in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo. Se questo è chiaro, il dibattito, per quanto mi riguarda, può avere inizio e vi parteciperò fino in fondo. Per il resto se volete parlare di Roma, prima documentatevi.
segue a pagina 7
di Gianni Alemanno
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