Noi, testimoni anti mafia dimenticati dal governo

Noi, testimoni anti mafia dimenticati dal governo

Q uasi nessuno sa chi sono veramente. I testimoni di giustizia non vogliono finire sui giornali. Finché non hanno scelta, come adesso. Sono costretti a spiegare che non hanno niente a che fare con i collaboratori. I pentiti infatti sono mafiosi che decidono di collaborare, ricevendo in cambio vantaggi giudiziari. I testimoni di giustizia invece sono cittadini onesti, vittime che denunciano e fanno condannare chi li taglieggia o li minaccia. In cambio avrebbero diritto, come stabilisce la legge numero 45 del 2001, al trasferimento in una località protetta, alla scorta e a una nuova identità. Invece, denunciano, conducono spesso «una vita da fantasmi, traditi dalle istituzioni, dalla cui parte abbiamo scelto di stare». I testimoni hanno chiesto aiuto al governo tecnico, ma le risposte non arrivano. E a chi è stato condannato a morte dalla mafia l’attesa può costare cara.
Luigi Coppola, 47 anni, è uno di loro. Nel 2002, quando è stato ammesso al programma di protezione con la moglie e le due figlie bambine per aver denunciato i camorristi che gli chiedevano il pizzo, la sua rivendita di auto usate andava bene. «Mai avuto un debito - spiega -. Poi sono diventato testimone, grazie a me sono stati condannati in via definitiva 23 criminali, ma da allora la nostra vita è un inferno. Sballottati per l’Italia, senza lavoro, in fuga come se ad aver commesso reati fossimo noi». Nel 2007 Coppola decide di tornare a Pompei, esce dal programma e riapre l’autosalone. «Come previsto, mi hanno dato un contributo di circa 270mila euro da investire nell’impresa, rimanevo comunque sotto scorta, perché continuo a rischiare la vita». Nessuno però ha comprato macchine da Coppola, né gli ha affittato una casa. «Siamo trattati da appestati, la camorra ci ha fatto terra bruciata intorno. La mia azienda è in perdita. Abbiamo vissuto un po’ in hotel, un po’ nella macchina blindata. Cosa voglio? Che mi ridiano quello che ero, che restituiscano dignità a mia moglie e alle mie figlie». Tra gennaio e febbraio sono arrivate due convocazioni della Commissione centrale dell’Interno, rinnovata e presieduta dal sottosegretario Carlo De Stefano. «Lui mi è parso disponibile, ma non ho avuto risposte. In compenso mi è stata revocata la protezione e dal 16 febbraio sono senza scorta. Ho ricevuto minacce, per motivi di sicurezza dormo in macchina, da solo: non voglio mettere a rischio la mia famiglia. Mi sono anche dimesso dagli incarichi anti camorra che avevo sul territorio. Quello che è peggio è che il governo mi consiglia di lasciare la mia città: la considero una resa dello Stato, che consegna la mia terra alla mafia. È questo il riscatto che si deve aspettare un cittadino che ha scelto la legalità?». Coppola non si arrende, da quattro giorni fa lo sciopero della fame davanti al Viminale con la moglie.
Il ministro Annamaria Cancellieri conosce la condizione dei circa 70 testimoni di giustizia. De Stefano, interpellato dal Giornale, preferisce non rilasciare dichiarazioni. Molti testimoni denunciano disagi e falle nella protezione. Non solo. Le istituzioni sono tenute a garantire loro un tenore di vita non inferiore a quello che avevano prima di entrare nel programma e il reinserimento sociale e professionale. «L’impiego che ci avevano promesso non è mai arrivato. Siamo mantenuti nostro malgrado». Rossella, 46 anni, della provincia di Crotone, vent’anni fa era fresca di laurea. «Al mio paese una guerra di ’ndrangheta aveva fatto 40 morti ammazzati. Due miei fratelli sono stati uccisi. Il più grande era coinvolto in vicende di mafia. Il resto della mia famiglia è estraneo a fatti criminali. A un certo punto lo Stato ha bussato alla nostra porta. Ci è stato riconosciuto lo status di testimoni, abbiamo lasciato tutto e siamo andati via». Una decina di anni fa la famiglia di Rossella è uscita volontariamente dal programma, per provare a recuperare una vita normale, anche se per paura non è mai tornata in Calabria. «Ma cercare lavoro senza documenti di copertura in regola, senza poter dire chi sei e dopo anni di isolamento non è facile. Adesso siamo pure sotto sfratto. Ho perso 20 anni. La ’ndrangheta non mi ha ammazzato, ma lo Stato mi ha annullato». Testimoni ed ex testimoni puntano su una proposta di legge, rimasta nel cassetto, che prevede la loro assunzione nella pubblica amministrazione in base a competenze e titolo di studio.

Sulla vicenda ci sono petizioni firmate da politici, come Sonia Alfano, Angela Napoli e Giuseppe Lumia, e una recente interrogazione di Ignazio Messina. «La mia terra è in mano alla ’ndrangheta. Come spera il governo - si chiede Rossella - di convincere altri a sfidarla, se quelli come noi sono abbandonati?».

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