Solo il Porcellum salva il Pd Ma è testa a testa al Senato

A forza di maneggiare candeggina alla fine si è smacchiato Bersani. Eppure, dalla «gioiosa macchina da guerra» in poi, è prudente non sottovalutare mai la capacità di perdere del centrosinistra. La regola si è confermata, smentendo tutti i pronostici, anche i più cauti sulla vittoria facile del Pd. Una trionfo dato per scontato da mesi che si è tramutato in un incubo. Al Senato il centrosinistra guadagna meno seggi del «Giaguaro» Berlusconi (116 a 113), ma nessuno ha i voti necessari per controllare Palazzo Madama, nel caos. Se non fosse per l'esecrato Porcellum il centrosinistra non avrebbe maggioranza neppure alla Camera. Grazie alla legge elettorale il Pd conquista infatti 340 seggi, il 55% di Montecitorio, con soltanto il 29,5% dei voti, con Pdl-Lega sotto soltanto dello 0,39%, circa 120mila voti (perciò il Pdl chiede al Viminale di non ufficializzare i dati della Camera prima delle ulteriori verifiche previste dalla legge), e il M5S primo partito col 25,5%. In sostanza il Porcellum regala a Bersani un 15% virtuale, una maggioranza parlamentare che però poggia su un distacco reale minimo. Soprattutto a livello regionale il quadro non è roseo per il Pd. Passa al centrodestra la Puglia di Vendola, uno degli sconfitti dall'urna, poi la Sicilia appena vinta dal piddino Crocetta, mentre si confermano per il ticket Berlusconi-Lega altre regioni pesanti come Lombardia, Veneto, e quindi Abruzzo, Calabria, Molise. Siamo dieci regioni a otto, tra centrosinistra e centrodestra, che però conquista o tiene quelle che portano più senatori. Sconfitte simboliche: a Bettola, città natale di Bersani dov'è iniziata, alla pompa di benzina che fu del padre, la sua campagna elettorale, perde il Pd, sia alla Camera che al Senato. Rispetto al 2008 il Pd lascia per strada circa cinque punti percentuali (dal 33% al 26,9%), risucchiati - spiega l'Istituto Cattaneo - soprattutto dal Movimento Cinque Stelle, che ha un elettorato eterogeneo ma in maggioranza di centrosinistra.
Il boom di Grillo costituisce un nuovo terzo polo, mentre quello vagheggiato da Fini e Casini, con la carta Mario Monti, produce un flop fragoroso. La coalizione centrista supera di un soffio la soglia di sopravvivenza alla Camera (che è del 10%), con l'esclusione di Gianfranco Fini dal Parlamento, dopo 30 anni. Perché, a sorpresa, non solo Fli ma anche l'Udc è sotto il 2%, e in quel caso passa il miglior perdente, che è Casini con l'1,7%, mentre Fini racimola un terrificante 0,45%. Con Monti, senatore a vita, che si dice «deluso» dall'affermarsi del «populismo». A conti fatti la maggioranza del Paese, se si sommano i voti anti-Monti, dal Pdl alla Lega al M5S, sono contro la linea dell'austerity filo-Germania. Una bocciatura molto chiara con cui si dovrà fare i conti, a iniziare dal Quirinale incaricato di sondare l'esistenza di una nuova maggioranza e un possibile premier. Se alla Camera il Pd-Sel ha una maggioranza, al Senato servono altri voti, e quelli di Scelta Civica (Monti), che ha 20 seggi (19 più Monti), non bastano per raggiungere la soglia di maggioranza assoluta (158 seggi) che permette la governabilità anche nella Camera alta. Forse partirà un tentativo diplomatico con Grillo, che ha 64 senatori, ma l'esito sembra scontato. «Entriamo in Parlamento e non pensino di fare inciucetti, inciucini» spiega Grillo alla web tv del M5S. Le porte sono chiuse, il Senato è spaccato in tre.
Se è un'elezione senza un vincitore assoluto, ma con alcuni protagonisti di exploit, da Beppe Grillo, che ha sfondato il 25%, a Berlusconi, autore di una rimonta ampiamente sottovalutata dagli avversari. Hanno vinto i messaggi chiari, il «vaffa» del M5S al sistema corrotto dei partiti e delle lobby, l'impegno a togliere l'«iniqua» tassa Imu da parte del leader Pdl. Non hanno centrato il messaggio invece il Pd (l'unico che ha sfondato, lo «smacchiamento del giaguaro», è una battuta di Crozza), né la sobrietà di Monti. Gli sconfitti sono più facili da individuare. Oltre al «centrino» di Monti, e a Vendola che va poco il 3%, c'è il flop di Antonio Ingroia. Il magistrato non elegge nessun deputato o senatore (anche Di Pietro esce dal Parlamento), e si piazza attorno al 2%. La colpa, dice Ingroia, è tutta del Pd, della «scelta suicida di Bersani che ha preferito l'abbraccio mortale con Monti piuttosto che aprirsi a una alleanza con noi: io glielo avevo proposto e lui nemmeno mi ha risposto».

È andata male anche a Fare per Fermare il declino, attorno all'1%, forse azzoppato nell'ultimo miglio dal caso Giannino (le frottole su master, lauree e Zecchini d'oro) gestito con poco polso dai anti-declinisti. Resta una situazione difficile da sbrogliare. Il Financial Times registra «poche speranze che un partito riesca a formare una maggioranza. Mentre gli italiani arrabbiati dicono “basta” alle politiche di austerità».

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